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Prisoners

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su Prisoners

di scapigliato
8 stelle

Jake Gyllenhaal ama tornare sul luogo del delitto. Lo troviamo così, a sei anni e sei film da Zodiac (2007), in un nuovo thriller autoriale dove i cliché del genere, i luoghi comuni e la modulazione narrativa non sono posticci rimodellamenti di un canone preciso, ma acquistano una forza visiva – grazie agli apporti di Roger Deakins alla fotografia e di Joel Cox al montaggio – e uno spessore drammatico che vanno oltre il genere.
Non è più il giovane ribelle di Donnie Darko (2001). Jake Gyllenhall nel frattempo è stato più volte un militare di carattere, Jarehead (2001) e Tolleranza Zero (2012), un amante coccolone e sexy, The Good Girl (2002) e Amori e Altri Rimedi (2010), un avventuriero sci-fi, The Day After Tomorrow (2004) e Soure Code (2011). Della serie “mi piace tornare in certi personaggi”. Anche in Prisoners, film gemello di quello diretto nel 2007 da David Fincher, Gyllenhaal si confronta con l’abisso della coscienza umana, scavando nel torbido della vita domestica di buoni cittadini insospettabili, tutti con i propri scheletri nell’armadio. Letteralmente.
Il film di Denis Villenueve utilizza la stessa estetica fredda e monocromatica, minimalista e distante di Zodiac, struttura la vicenda sulla scoperta di inquietanti misteri come se si scoperchiasse una casa degli orrori, insinua il sospetto nel vicino di casa rendendolo di colpo spettrale e ci avvicina al male con il passo leggero della quotidianità svelando mostri che hanno l’aspetto del nostro migliore amico. Come in Zodiac, l’insospettabilità del male serpeggia anche tra le strade tristi e invernali di un’America marginale che tenta in tutti i modi di costruirsi un’immagine di decoro pur vivendo arroccata su pregiudizi e nazionalismi piccolo borghesi. La caccia al cervo, l’ossessione per una minaccia esterna, l’inno nazionale, la retorica del giorno del ringraziamento, le fiaccolate, l’insistente motto machista, la famiglia su ogni cosa: tutti elementi della narrazione che completano un quadro di povertà intellettuale da cui nascono i mostri, mostri che ci siedono accanto, che pregano, che assolvono, che sorridono.
Prisoners è l’America che dà la caccia a se stessa. Il celebre mito della caccia all’uomo, qui più moderato e circoscritto, rivive nelle tensioni famigliari e nella strana indagine del poliziotto interpretato da Gyllenhaal che sembra trascinare svogliatamente il caso. C’è un rapitore di bambini, forse un pluriomicida, un mostro pedofilo, ma non si sa che volto abbia, dove si possa trovare e quando agirà di nuovo. Nonostante questo, il film non abbandona il suo mood invernale, si intabarra più che può, ovatta tutto, lo ammanta di freddo e di nevischio. Tutto sembra non muoversi, eppure ci sono cani e poliziotti per i boschi, c’è un padre che sequestra il primo sospettato e lo tortura per strappargli la verità. Ma qual è la verità?
Villenueve sa giocare con il montaggio e il ritmo a tratti turbinoso e a tratti contemplativo. A corredare questa messa in scena azzeccata ci sono personaggi ambigui, sfaccettati, che non sono mai quello che sembrano, umani e disumani, freddi e passionali. Su tutti spicca Jake Gyllenhaal e il suo detective Loki – Loki? Quel dio astuto,  re del caos, ingegnoso manipolatore e diabolico ingannatore? Quel Loki? – un personaggio da cui non staccheremmo mai gli occhi di dosso sia per l’ironia che lo distingue e che lo difende come uno scudo sia per la tenacia con cui va per la sua strada. Non è da meno Hugh Jackman, il padre più combattivo, ma anche il più ambiguo, ombra junghiana, parto infelice del ventre molle di un Paese sempre in lotta con se stesso. La sua performance fallica, piena di vigore fa da eco alla serena pacatezza della placita vita di periferia, la periferia dove si aggirano mostri per i boschi e fin sotto casa. Contraltare del posato detective di Gyllenhaal, il padre di Hugh Jackman è il nervo americano esposto e ferito. Ed esplode la mattanza.
Il film, sul finale si riprende un po’ dall’angoscia sviluppata lungo la maggior parte della vicenda, senza però edulcorare la feroce realtà che circonda le piccole vite marginali e senza riappacificare gli strappi con il reale e con il senso del dovere civile. Lascia un dubbio, metaforico e simbolico, sulla perpetua condizione di cattività del titolo. La lotta ingaggiata contro dio – felicissima intuizione motivazionale – ad opera del mostro rapitore non muove verso una ritrovata fede cattolica, bensì riattiva gli anticorpi laici di una società che deve sgravarsi dall’ideologia religiosa, matrice di mostri, il rapitore, come di vendicatori guidati da dio, ugualmente mostruosi, come il padre combattivo di Jackman.

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