Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Se Takashi Miike è un davvero un genio, allora è tutto spiegato. È chiaro il motivo per il quale questo film riesce ad incantare lo sguardo, ad inchiodarci alla poltrona, a stuzzicare il nostro appetito di tensione e mistero, pur essendo una storia da poco. Un road movie la cui trama è piuttosto avara di sorprese: cambiano, periodicamente, i mezzi di trasporto e sempre più personaggi vengono uccisi lungo la via, ma questi sono gli unici elementi che movimentano il racconto. Il resto del discorso si mantiene pervicacemente fisso, concentrando la nostra attenzione su quel soggetto immodificabile, che non potrà mai pentirsi, perché forse è il Male in persona: si chiama Kunihide Kiyomaru, ed è un maniaco pedofilo, un brutale assassino di bambine. A vederlo, lo si direbbe un ragazzo qualunque, dal viso attonito e dall’espressione svagata. Invece è lui il mostro, sul quale pende una taglia miliardaria: il nonno di Chika Ninagawa, l’ultima delle sue vittime, ha messo in palio una vertiginosa somma per chi riuscirà ad ammazzarlo. Cinque poliziotti lo dovranno scortare, dal luogo dov’è detenuto, fino a Tokyo, la città in cui si deve tenere il processo. La loro missione impossibile è proteggerlo, lungo un tragitto di molti chilometri, da un’intera popolazione di potenziali giustizieri sensibili al richiamo del denaro. La situazione circostanza è surreale, ed in parte claustrofobica, segnata dal sospetto e dalla pura e semplice paura di morire, o anche solo di fallire. Apparentemente non c’è spazio per la narrazione, per il dialogo, per la riflessione. Eppure il film vive, respirando a pieni polmoni in quell’atmosfera diradata dall’assenza del pensiero, soffocato dall’obbligo di tacere, agire, vigilare e nascondersi. Si può continuare ad essere uomini anche quando le circostanze ci riducono a robot anonimi ed invisibili: e c’è un momento, che precede immediatamente l’uscita di scena, nel quale ogni personaggio improvvisamente prende colore, avvampando nella fiamma della sua fragilità, che può avere l’aspetto infuocato del sangue o quello silenzioso, ma non meno rovente, del dilemma della coscienza. Le singole realtà individuali si accendono, quando sono sul punto di sparire: la vita si prende allora un’estrema, fugace rivincita sulla morte, subito prima di farsi inghiottire dal buco nero, quell’abisso che divora inutilmente le esistenze di tanti innocenti, e rimane senza un perché. L’anima di questo film, dalle sembianze stentate e pallide, risiede proprio in questa certezza distruttrice, che è lo spirito inflessibile di chi ammazza per il gusto di farlo, o perché travolto dalla necessità, oppure perché accecato dalla sete di vendetta. L’assoluto è un impulso sconsiderato, così primitivo da non riuscire ad assumere le vesti articolate di una trattazione letteraria. Le sue manifestazioni sono scarne e scontate, spoglie e banali. Sono i rimbalzi di una potenza omicida e suicida, che non conosce ragione, ma appartiene a tutti, e non risparmia nessuno. La lotta contro di essa è combattuta con uno scudo di paglia: pochi si salvano, perché la vera artefice della strage è quella logica infernale che gioca con il caso e si chiama inevitabilità.
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