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El dedo

Regia di Sergio Teubal vedi scheda film

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La recensione su El dedo

di OGM
8 stelle

Bisogna “credere per vedere”. Allora anche un dito può candidarsi alle elezioni. E magari vincerle. È quanto accade in un paese sperduto dell’Argentina nel 1983, l’anno del ritorno alla democrazia dopo una lunga dittatura militare. L’indice è di un certo Baldomero, che è stato ucciso prima di potersi ufficialmente presentare per la carica di sindaco. Occorre, però, che nessuno denunci il suo decesso all’anagrafe, perché altrimenti il numero degli abitanti scenderebbe oltre la soglia minima prevista per poter conseguire lo status di comune. Il primo a non volerlo è Don Hidalgo, l’unico avversario del defunto, un latifondista senza scrupoli che farebbe qualsiasi cosa pur di conquistare il potere. La caricatura del cattivo domina negativamente la scena con la sua grottesca ambizione, che da mostruosa diventa ridicola nel momento in cui la sua ombra viene proiettata su quel minuscolo luogo tagliato fuori dal mondo, nel quale l’autobus passa una volta alla settimana, e non sempre si ferma. Il tempo è rimasto imprigionato tra quelle poche case ad un solo piano, in mezzo alle quali spicca il negozio di Florencio, il fratello del morto. In quel magazzino con i tavolini per bere e giocare a carte,  gli espositori pieni di caramelle sfuse e gli scaffali che arrivano sino al soffitto, l’uomo trascorre un’esistenza ritirata e tranquilla, conversando con le donne che vengono con la sporta a fare la spesa, perché sanno che lì, come promette l’insegna, si trova quasi tutto. L’assassinio di Baldomero metterà per sempre fine a quella sonnolenta routine, risvegliando, tra quelle anime semplici, infatuate dal prossimo avvento della modernità, l’antico senso del mistero. Il regista esordiente Sergio Teubal si ispira ad un romanzo di Alberto Assadourian per realizzare, con il piglio ruspante della commedia di costume, quello che si potrebbe definire un western primitivo e magico; un pittoresco ritratto d’ambiente immerso nello stesso incanto selvaggio che, a suo tempo, Dennis Hopper aveva saputo magistralmente catturare nel suo misconosciuto capolavoro intitolato The Last Movie (1971).  Nelle terre in cui la Storia è rimasta fuori dalla porta, l’assurdo regna sovrano, ingigantendo lo spettro delle più morbose fantasie. Mozzare un dito ad un cadavere, per ricavarne un pegno di vendetta da mettere in mostra come una reliquia, è un rito in cui l’istinto sanguinario si sposa al feticismo di una religione naturale, bagnata nei liquidi organici ed impastata nella carne che, benché inanimata, continua a pulsare di divinità. Non è un caso se le principali figure di riferimento, in quella comunità di contadini, sfaccendati e fattucchiere, sono il parroco e il macellaio. Giovani maghe producono seducenti malefici a cui altri devono rimediare con le tradizionali pratiche sacrificali. La pericolosa malia, che intrappola chiunque metta piede in quel posto stregato, riesce a creare dal nulla un nuovo mito oracolare: un dito, conservato in un barattolo di vetro, diviene, da un giorno all’altro, fonte di salvezza e verità, guarendo i  malati ed indicando la via che porta alla fortuna. L’anacronistico prodigio – che si manifesta soltanto a chi ha fede – si rivelerà, paradossalmente, come il veicolo del futuro. in grado di traghettare quella gente derelitta verso il progresso sociale e culturale: una sorta di  astronave ideologica, che fa maturare la coscienza stuzzicando la fantasia ed alimentando la fiducia nel domani. Intorno a quel feticcio, al contempo popolare ed elitario, complotto politico  e favola campestre si abbracciano in un avventuroso  girotondo che sfida la ragione per stimolare il pensiero innovatore. Lo spettacolo dell’impossibile insegna ad osare, e convince a non rassegnarsi. Il nonsenso fa bene a coloro che non hanno speranza: è il logos creatore che scende al livello delle loro piccole menti confuse, per soffiarci dentro, e farne volare i tanti pezzi colorati e leggeri. El dedo, ad un tratto, punta verso il cielo: è lì che bisogna guardare, per dimenticare di essere poca cosa, ed abituarsi ad essere qualcuno che conta, anche solo depositando una scheda in un’urna.

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