Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film
Dall’incontro tra il noir e la scintilla kubrickiana non poteva che scaturire lo sfavillio del metallo, acuminato e astratto, della pianificazione razionale e dell’inesorabilità del destino. A ciò si aggiunge una nitidezza tagliente, che è la controparte visiva della nitidezza e del rigore. Questo sarebbe un film come un altro se non fosse per quella debordante voluttà di visione, quell’insaziabile desiderio di guardare “oltre” e “attraverso”, che spinge a tornare ripetutamente indietro nel tempo, per riesaminare la stessa situazione da diverse angolature. La completezza della narrazione produce così una sorta di allucinazione cubista, in cui passato e presente, qui e altrove, diventano tasselli multidimensionali impossibili da ricomporre in un quadro. Eppure tutto appare perfettamente chiaro, logico e coerente, mentre la storia corre spedita verso la strada senza uscita del finale: l’invenzione del caso sembra cedere il passo all’inevitabilità della concatenazione tra causa ed effetto, e alla perentorietà della condanna morale. Come in tante successive opere di Kubrick, la violenza è la follia che, indirettamente, ristabilisce l’ordine, perché è la forza catalizzatrice che fa avanzare il mondo inducendolo a riflettere su se stesso, eliminando ciò che è senza speranza, e riparando ciò che invece è recuperabile. In questo senso, The Killing ha un potere catartico, che fa naufragare la megalomania e la pretesa umana di controllare il corso delle cose, per ridurre tutti alla docile modestia di chi sa di aver fallito.
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