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Un rantolo nel buio

Regia di William Fraker vedi scheda film

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La recensione su Un rantolo nel buio

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un thriller insolito e disturbante che soffre per le troppe, inappropriate intromissioni produttive. Il bilancio complessivo è comunque positivo grazie a una tensione crescente, una rivelazione finale davvero inaspettata e imprevedibile e una inquietante atmosfera che amplifica e rende palpabile l’ambiguità sessuale che permea tutta la pellicola.

Quali sono gli elementi di eccellenza di questa insolita e abbastanza misconosciuta pellicola che porta la firma di William A. Fraker, certamente più noto ed apprezzato per la sua precedente straordinaria attività di operatore (sono sue  per esempio, le ottime performances fotografiche di Bullit e Rosmary’s Baby, tanto per ricordare con cognizione di causa di chi si sta parlando ed inquadrare doverosamente la sua statura artistica nel settore)? Sicuramente la fotografia, come è ovvio ipotizzare (che non è sua in questa circostanza, si badi bene) affidata però, con il fiuto del vero intenditore, alla maestria superlativa di un “virtuoso” della macchina da presa come Laszlo Kovacs (e non poteva essere altrimenti perché la sua esigente competenza doveva necessariamente fargli pretendere il meglio) questa volta più che mai al top delle sue possibilità creative, che riesce da par suo a costruire anche figurativamente il giusto, indispensabile climax, immergendo il film in una atmosfera morbosa, quasi malata, e assecondando così, persino amplificandole, le inquietanti implicazioni sessuali della torbida vicenda narrata.

La fotografia e le ambientazioni (la provincia canadese in prossimità del mare), decisamente prioritarie nella valutazione del risultato, sono dunque gli elementi di spicco, ma anche l’eccellente resa della protagonista, una ambigua, quasi androgina Sondra Locke (anch’essa più conosciuta forse per il successivo, prolungato rapporto professionale  - oltre che sentimentale – con  Clint Eastwood, e poi passata più marginalmente alla regia con tocchi spesso inusuali, ma con scarsi riconoscimenti di critica e di pubblico che non le hanno mai permesso, almeno in questa veste, di esprimersi al massimo delle sue capacità, rimanendo sempre confinata nel limbo un po’ anonimo delle eterne promesse mai completamente mantenute). E la Loke qui è bravissima a rendere davvero credibile e imponderabile, quasi angosciante, un personaggio altrimenti “al limite” come quello che è stata chiamata a rappresentare, aiutata anche da un trucco “ottocentesco” decisamente fuori “sintonia temporale” che la inserisce perfettamente e in maniera suggestivamente coinvolgente, nel quadro: una ulteriore, stralunata presenza fra quelle dei suoi malinconici pupazzi che la circondano. Il resto, (ma non tutto però, come vedremo in seguito, poiché ci sono altre cose che funzionano alla perfezione) potremmo definirlo “ordinaria amministrazione”, anche se il bilancio finale è complessivamente positivo e la tensione spesso palpabile, nonostante alcune cadute nell’ovvio e troppe intromissioni produttive.

Per Fraker  comunque, questa  incursione nel thriller, il suo secondo impegno dietro la macchina da presa dopo l’esordio avvenuto qualche anno prima con Monty Walsh, un western crepuscolare non originalissimo, ma tutt’altro che dozzinale, rappresentava davvero molto – l’effettivo banco di prova oserei dire - per dimostrare pienamente e compiutamente la sua statura di autore e definire al meglio la crescita di una personalità registica in ambiziosa espansione (la sua carriera però in questo campo non prenderà mai il volo, né si svilupperà, subirà anzi una inaspettata battuta di arresto dopo questo titolo, come spesso accade quando si realizzano opere un po’ discutibili, ma interessanti perché hanno il coraggio di “osare”, che incontrano, proprio per questo, un ostracismo del mercati abbastanza pesante, oltre che la diffidenza dei produttori, e non si ha una fama di autore sufficientemente consolidata per supportarle e difenderle fino in fondo, insieme alle proprie scelte). Che su Un rantolo nel buio (A Reflection of Fear in originale) avesse puntato molte delle sue carte, lo si evince dall’attenzione con cui organizza il progetto, da come lo struttura, anche se si conferma, (come accade quasi sempre a tutti quelli che dopo essere stati ottimi direttori di fotografia passano alla regia) più interessato (e disponibile e preparato) a curare l’aspetto decorativo del prodotto anziché quello drammaturgico, preoccupato cioè prioritariamente delle modalità di rappresentazione “visiva”  della confezione, e lasciando per questo più in secondo piano, tutto il resto, anche l’omogenea costruzione del racconto, della storia, poiché a volte sembra perdersi per strada il senso “logico” della “narrazione” (ma visto che il cinema è soprattutto “immagini in movimento” e atmosfere empatiche, non è poi un difetto così esecrabile questo, anzi!!!, alla resa dei conti, può rappresentare persino un pregio). In ogni caso, al di là della indubbia qualità formale, qui, c’è anche un approccio alla vicenda non banale, e certamente inusuale: la mano del regista è particolarmente accorta nel creare “suggestioni”, aiutato in questo dai due sceneggiatori (Lewis  John Carlino  e Edward Hume) che, prendendo spunto dal romanzo Go to Thy Deathbed di Stanton Forbes, confezionano, pur con qualche evidente smagliatura, un giallo psicologico di ottima e - tutto sommato - credibile fattura.

La storia (per la verità abbastanza “sgradevole” nelle sue implicazioni profonde) è quella di una ragazzina, figlia di genitori separati, che è stata cresciuta dalla madre e dalla nonna quasi segregata in una lussuosa residenza di campagna, lontana da ogni effettivo contatto con il mondo anche adolescenziale che la circonda, e assorta in un patologico dialogo con un suo personale, privato amico “immaginario” (il frutto esasperato di una fantasia un po’ disturbata?) fra innumerevoli bambole e pupazzi,  le uniche ineffabili  presenze che sembrano essere capaci di colmare un poco il vuoto di una esistenza decisamente anaffettiva.

Già da questi accenni, i modelli (e i rimandi) sono palesi, seguono schemi ben consolidati di una letteratura (e anche di un cinema) che ha i suoi codici (e i suoi sviluppi), conformi e coordinati, compreso il fatto che sarà proprio il ritorno del padre, venuto a reclamare il divorzio in compagnia della sua nuova compagna (l’incursione destabilizzante dentro un equilibrio già precario che non può non creare il corto circuito), a determinare il “dramma” e a scatenare una tempesta di rapporti e di “sentimenti” che sfocerà in tragedia con annessa catena di delitti. Dire di più, significherebbe togliere allo spettatore il gusto della scoperta, il divertimento di inerpicarsi nei meandri contorti della psiche per cercare di risolvere, semplicemente con la propria intelligenza, il proprio intuito, un enigma in apparenza contorto, ma che potrebbe apparire persino di troppo facile soluzione, se non ci fosse poi l’impennata di una rivelazione finale davvero inaspettata e decisamente imprevedibile, scioccante ed allarmante allo stesso tempo, che rappresenta però l’ulteriore elemento di eccellenza che eleva il film al di sopra della media e non solo del genere. Credo poi che se ci fosse stato concesso il privilegio di vedere l’opera esattamente per come era stata concepita dal suo autore, l’impressione, tutto sommato positiva che ne traiamo (o per essere più precisi che io ho tratto, poiché ogni opinione - o giudizio che dir si voglia - è chiaramente soggettivo) sarebbe stata ancor più affermativa. Purtroppo però sappiamo che anche questa volta (non dimentichiamo che eravamo nei primissimi anni ’70) l’ambiguità espansa dei temi trattati, la carica  malsana che trasuda, le implicazioni di carattere sessuale che non sono poi tanto sotterranee, non potevano che impaurire una produzione troppo conforme (e si corre sempre malamente ai ripari in queste circostanze). Ecco allora che quello che è arrivato in programmazione, è un prodotto in parte addomesticato, largamente manipolato dalla Columbia per “ammorbidire” l’eversione del tracciato e tentare così di evitare un divieto ai minori, altrimenti “certo” per la troppo evidente esasperazione scabrosa delle pulsioni (più che dei rapporti) che sfociano poi in quel risvolto conclusivo difficilmente immaginabile a cui si accennava sopra che fornisce però una differente e più chiara  luce ad ogni cosa.

Se vogliamo fare una questione di lana caprina, potremmo accusare il film di una certa rozzezza nella definizione psicologica dei personaggi, di imperdonabili latitanze anche di una ferrea logica nel progredire degli eventi, ma attaccandoci a queste considerazioni, ci sarebbero ben altre pellicole anche di culto da stigmatizzare, poiché a volte  si giocano carte ben più truccate e sleali di quelle buttate sul piatto in questa circostanza. Se l’importante è mantenere accesa l’attenzione e vivo l’interesse, e se il coup de théâtre finale ripaga ampiamente il prezzo del biglietto, che cosa possiamo pretendere di più, però? Ci siamo emozionati e spaventati quanto era necessario che accadesse, no? le aspettative non sono state tradite, dunque, e possiamo tornare a casa soddisfatti, e questo a mio avviso è proprio il caso in questione, che riguarda un titolo quanto meno da “riscoprire”, o anche da “rivalutare”, perché no?  quasi del tutto dimenticato, ma che nemmeno al momento della sua uscita, ebbe particolare fortuna, mandato come fu, allo sbaraglio (si potrebbe dire al “macello), nel pieno dell’afosa e “vuota” stagione estiva, per altro senza un adeguato battage pubblicitario, quasi si trattasse di un fondo di magazzino da smaltire frettolosamente, nonostante la pregevole cornice, i cromatismi della fotografia, le ambientazioni, e l’ottima cura posta nella scelta degli interpreti, fra i quali c’è per la verità anche un Robert Shaw abbastanza sottotono nel ruolo del padre, indiscutibilmente un po’ al di sotto dei suoi quasi sempre ottimi standard, ma anche un affiatato, formidabile tris di donne a fare da corona con il loro variegato disegno dei caratteri, alla virtuosistica prova della Locke: May Ure (la madre protettiva e sfuggente), Singe Hasso (la nonna) e soprattutto Sally Kellermann (la nuova “fiamma” dell’uomo) coinvolgente e conturbante come al solito.

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