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Ran

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su Ran

di OGM
10 stelle

Un film dominato da una poesia tragica, ma pacata; intensa, però immobile, ferma nella stanca solennità di un mondo feudale in declino. I colori sono sgargianti, però artificiosi e freddi; la teatralità, sia pur carica di volontà e di emozioni, è temperata dal rigore di un cerimoniale intorno al quale anche i paesaggi naturali sembrano svuotarsi e irrigidirsi. Tutto, all’inizio, appare statico e invariabile,  come l’attaccamento al potere, che resiste inutilmente all’avanzare della Storia,  trasformando l’immagine del vecchio principe Hidetora  in una sorta di cariatide corrosa dalle intemperie. Il potere ereditario si trasmette di padre in figlio, ma non è un dono che passa attraverso il cuore. Il potere  è radicato nella carne come il legame di sangue o l’attrazione sessuale, però rivendica un’esclusività più perentoria dell’amore coniugale o familiare. Non lo si può dividere senza generare invidie e gelosie, né si può pensare di cederlo in parte, trattenendo il resto per se stessi. Il potere deve rimanere uno, solido e inscindibile, perché è un’entità granitica, che non ammette, al suo interno, distinzioni né dualismi, come quello rappresentato, nelle insegne di Hidetora, dalla compresenza del sole e della luna (racchiusa, del resto, anche nel nome giapponese Akira). Ran è la rivolta universale che si scatena quando si pretende forzatamente di introdurre questo paradosso; allora è lo stesso ordine delle cose a ribellarsi all’insanabile lacerazione, e a fare strage, indistintamente,  di tutti coloro che vi hanno contribuito, a cominciare da Hidetora, su cui, significativamente, convergono i tiri incrociati degli arcieri. Frecce e proiettili piovono da ogni direzione: è lo spettacolo simbolico del “tutti contro tutti”, è l’apocalisse visiva in cui si riassume il collasso esplosivo di un sistema la cui logica è stata irrimediabilmente infranta. All’avvento del caos partecipano anche gli elementi, con l’infuriare delle fiamme, il calare della nebbia, il temporale che flagella il terreno ed il vento che attraversa, mulinando, le praterie incolte. Lo sconvolgimento investe anche il corpo e la mente di Hidetora, procurandogli febbre e follia; l’onda del rimorso lo raggiunge attraverso l’aria, per mezzo delle correnti casuali che deviano i colpi mortali diretti su di lui e attutiscono il suo salto dalla rupe (condannandolo a vivere col peso della colpa), e mediante le note del flauto di Tsurumaru (il giovane che egli, anni addietro, aveva fatto accecare).    La luce è l’altro veicolo impalpabile su cui viaggia la sostanza morale di quest’opera, che alterna scenari intrisi di cupo dolore a scenari battuti da un sole impietoso. Il cielo, dalle tonalità mutevoli, sembra lo specchio della terra sottostante, fatta di deserti infuocati, gelide pietre e lande polverose, in mezzo alle quali la figura umana spicca come un essere nudo e indifeso, esposto al giudizio implacabile di paradiso e inferno.  Kurosawa riesce a riprodurre, sullo schermo, la suggestione di un dramma recitato su un palcoscenico spoglio; le presenze fisiche degli interpreti, i gesti e le parole sono solo i capisaldi dell’azione, mentre il senso di quest’ultima occupa, invisibile, lo spazio vuoto tra gli attori. È lì in mezzo, nell’etere sospeso e impersonale in cui dimorano Budda e gli dèi, che riecheggiano gli effetti del nostro operato, determinando le sorti della battaglia e scegliendo i bersagli da colpire; Ran è la storia del male e della distruzione che non sono imposti da un destino infame, bensì sono genialmente architettati e perfidamente voluti da anime infelici ed assetate di vendetta.

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