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Ran

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su Ran

di ilcausticocinefilo
10 stelle

 

 

 

Un altro capolavoro del maestro Kurosawa, un altro caleidoscopio di significati ed emozioni veicolato tramite una forma encomiabile. La cifra stilistica del film, difatti, basterebbe sola a consigliarne la visione e la re-visione: l’incredibile cura nella resa dei costumi e degli ambienti; la potenza evocativa delle scene di battaglia (tra le più tragiche, antiretoriche ed antieroiche di sempre) e di alcune immagini folgoranti (ad esempio, Hidetora che esce, ormai impazzito, dall’enorme castello avvolto dalle fiamme); la ricchezza satura di colore e senso della fotografia di Nakai, Saito e Ueda, che offre un apporto decisivo alla riuscita, con peraltro proprio i colori usati spesso in modo simbolico: «l’ambiguo Taro veste di giallo, l’ambiziosissimo Jiro porta il colore della violenza (il rosso), Saburo l’azzurro dell’innocenza, Hidetora indossa un kimono bianco» [ 1 ] come fosse uno spettro.

 

 

 

Ma oltre alla forma, la sostanza. Ran si presenta quale una delle opere dal pessimismo più accentuato nella lunga carriera del regista, che trae ispirazione tanto dalla storia nipponica (dalle vicende del daimyo Mori Motonari, dalle quali deriva la celebre parabola delle frecce) quanto dallo Shakespeare di Re Lear e Macbeth, per portare a termine la sua personalissima meditazione circa la Storia e il suo portato di violenza e sopraffazione.

 

In un mondo gravato di lutti e piagato dall’irriducibile sete di potere e dalla smodata ambizione, le uniche parziali eccezioni, nelle più alte classi, a tale cornice funerea parrebbero essere Sue e il di lei fratello Tsurumaru, essi stessi vittime della ferocia passata di Hidetora, che tentano di rifuggire il perenne circolo vizioso di violenza e vendetta, senza tuttavia riuscire a spezzarlo.

Ben più efficace nel contesto dato risulta essere non a caso la “novella” lady Macbeth, quella principessa Kaede che al contrario non si fa scrupoli e persegue con strenua tenacia il proprio obiettivo di rivalsa. Ma è nulla rispetto all’estrema vanità e ingordigia di uomini quali Jiro (in ciò perfetto emulo del padre), assolutamente indifferenti persino dinnanzi alla paventata possibilità di assassinare dei familiari.

 

 

 

In un simile quadro allucinato, il più lucido di tutti – capace di vedere le cose come stanno e riportarle senza mezzi termini – finisce per essere il “buffone di corte”, Kyoami, al quale sono consegnate alcune delle battute più memorabili [ 2 ].

Si potrebbe dire, poi, Hidetora venga punito per i passati peccati eppure ciò non cambia molto il fondo della questione: come in un eterno ritorno dell’uguale a lui succederanno uomini altrettanto spietati o perfino più spietati di lui.

 

Ran (caos, tumulto, rivolta) ci presenta, in sostanza, una visione tetra e sconsolata della Storia, quasi senza vie d’uscita. Siamo posti davanti ad un'atterrante radiografia di un’umanità destinata a perpetuare all’infinito e ad libitum orrori e malefatte nonché, probabilmente, alla lunga – alla fine – votata all’autodistruzione.

Una «straordinaria riflessione sulla Storia quale eterna ripetizione del Male, della sofferenza e della barbarie» (Mereghetti). Il grande regista giapponese qui non lascia praticamente scampo e ci offre un canto terribile, un grido di dolore per le ingiustizie del mondo.

E l’immortale immagine finale di Tsurumaru, che sappiamo esser cieco a causa della brama di potere di Hidetora, par quasi la metafora definitiva della condizione umana: incerta e resa ancor più precaria dalla crudeltà dei propri simili, sempre in bilico sull’orlo del precipizio, a guardare l’abisso.

 

 

 

 

[ 1 ]  A. Tassone, Akira Kurosawa, il Castoro, 1995, p. 116.

[ 2 ]  Ad Hidetora prima che questi si avventuri al castello: “L’inferno è vicino, più del lontano paradiso|Mondo pazzo! Siate folli per esser saggi!” | “Bene, da pazzo vede infine i suoi misfatti!” | “Nasciamo piangendo, moriamo quando abbiamo pianto abbastanza.

 

 

KYOAMI: Non ci sono dunque né dèi né Budda? Se esistete, fate qualcosa! Voi, malvagi, vi annoiate lassù, da ucciderci per gioco? Vi diverte vederci piangere?

TANGO: Basta! Non bestemmiare! Sono loro che piangono! Della stupidità degli uomini che credono di sopravvivere perpetuando all'infinito l'assassinio. Non piangere! Così va il mondo. Gli uomini cercano il dolore, le pene piuttosto che la pace. Vedi, nel castello, si battono per il dolore, si esaltano per la sofferenza e si compiacciono ad uccidere.

 

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