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Ran

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su Ran

di EightAndHalf
10 stelle

Nelle terre desolate, perennemente verdi, di un Giappone feudale, in un periodo storico in cui i clan e i principi si susseguono con la velocità e l’ebbrezza di un flusso caotico di eventi, Hidetora Ichimonji è un sovrano del Nulla. Le immagini iniziali parlano chiaro: il territorio è vasto, le montagne sono alte, la presenza umana è ridotta a chi il clan lo circonda e lo frequenta. I civili, gli esseri umani, i popoli, stanno lontani, in altre dimensioni, in altre innocenze, in altri isolamenti. Hidetora va gloriosamente a caccia, cerca una moglie per il figlio, beve dilettandosi con le battute demenziali del suo buffone. Segue una ritualità dallo splendore atavico e monumentale, maestoso e visivamente inebriante, però vuoto, come il Nulla su cui esercita il suo potere. L’egemonia sulla fedeltà e sulla volontà dei suoi sottomessi cavalieri, soldati e generali è il vero motore di questo suo potere, esteso a ben tre castelli e a chilometri e chilometri di terre ricche di prati e di boschi. Ma Hidetora, dall’altissimo portamento, vive nella stanchezza e in un malsano terrore. Il vuoto del mondo gli esplode davanti agli occhi, percuote la vegetazione col soffiare di un vento lento e gelido. C’è immobilità, tutto intorno, la si potrebbe dire la più precisa definizione di rigore. C’è un vasto strato di mondo. E poi ci sono i tre figli, i futuri detentori di questo potere. Gli stessi discendenti di Alessandro Magno, che frammentarono l’impero alessandrino in regni ellenistici, o, ancora peggio, barbari post-imperiali, che creeranno la società occidentale. O peggio ancora. Siamo così vicini e così lontani dalle culture più remote, allo stesso tempo. Ma il lato costruttivo, che la storia sempre lascia sperare negli eventi anche più tragici, qui è stracciato e spinto via come da un domino di catastrofi umane.

Kurosawa prende Re Lear e lo immerge nello strazio furibondo di esistenze vicine al collasso e al crollo. Uomini la cui eco rimbomba negli splendidi quadri del grande regista giapponese, la loro eco risuona in una Natura vuota e indifferente, una Natura che aspetta di essere contaminata (o perseguita fedelmente?) per non cambiare mai e riprodursi costantemente. È la vita dell’uomo, con le sue sovrastrutture, i suoi vaneggiamenti, le sue inutilità. I suoi vuoti. Un rigore che non serve a nulla, che controlla a malapena il caos (“ran”).

 

 

Uno dei pochi veri poemi epici della storia del Cinema. E la Natura è anche quella dell’uomo, indifferentemente e indiscriminatamente volta verso il versamento di sangue più irrequieto e raccapricciante, per poter salvaguardare un potere che è quasi un droga che esercita dipendenza o un oggetto sessuale per feticisti. Un potere che ruota e si aggroviglia sul Nulla di territori desolati, punteggiati dalle vite di chi è solo, altrettanto desolato ma anche più ingenuo, normale, vivo. Forse, per questo, ancor meno “naturale”. Piccoli uomini ciechi a cui è rimasto poco o nulla, se non il suono armonico di un flauto che predice e permette il raggiungimento di una catarsi. Un allontanamento totale dalla natura.

 

Se anche Princess Mononoke di Hayao Miyazaki inizierà con la caccia di un cinghiale, in Ran il concetto (giapponese) di Natura è rovesciato. La Natura è lontana, sembra quasi ricrearsi con i disastri umani, ed estendersi a perdita d’occhio rivelando però la sua assenza in tinte sottilmente bidimensionali. Su di essa l’uomo si muove come nel teatro giapponese, però in pose assurde e macabre, sempre alla ricerca del dolore e della solitudine. Gli esseri umani di Ran sono immersi in un nichilismo che anche oggi, e anche in futuro, spiazza e spiazzerà, e violentemente entrerà nell’immaginario dello spettatore. Dalla principessa lady Macbeth ai figli più folli e spietati, straccetti di poesia agglomerati con straordinaria grazia. Per rendere e raccontare, però, il caos delle nostre esistenze. Ci vorrà la solitudine per avvicinarci alla realtà e, quindi, alla follia. Ma non ci avvicineremo ancora di più alla natura, vagheremo su aride rocce o su fondamenta di palazzi crollati, per isolarci, alienarci, entrare a pieno contatto con il nostro Nulla. Finalmente in procinto di capire che la nostra arroganza e la nostra volontà di controllo del mondo si sviluppano in un vuoto insignificante, e che seguendo le leggi della violenza e del sangue, la Natura raggiunge impensabili apici di malsanità. Non controlliamo nulla, perché non c’è nulla da controllare. Possiamo capire di amare, di credere, di avere fede, ma saremo anche consapevoli di essere i fautori stessi della distruzione delle nostre illusioni più semplici e pure. Nel caos mastodontico di un’Apocalisse. Sul ciglio di un burrone, cos’altro può rimanerci?

 

Pericolanti. Pericolosi.

 

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