Regia di Joni Shanaj vedi scheda film
La carne è fatta per essere distrutta. Non la può salvare nemmeno la chimica, che, con le sue cervellotiche ricette, partecipa alla sua mercificazione. Ed anche le moderne astrazioni architettoniche contribuiscono alla progressiva destrutturazione della società umana. Branko è un giovane albanese dalla vita inoperosa e solitaria, che, in un quartiere periferico e deserto, pieno di cantieri e di scheletri di cemento armato, gestisce una farmacia in cui non entra mai nessun cliente. L’attività serve solo ai traffici del padre Sokrat, il quale, in un importante ospedale della città, è primario del reparto di oncologia. Ed è anche il tutore ed il probabile amante segreto di Saranda, la giovane infermiera di cui Branko si è invaghito. Il triangolo, però, è privo di passione, e presenta la stessa anonima inconsistenza dello scenario circostante, luminoso e aperto, eppure terribilmente freddo e desolato, che si direbbe accecato dall’inganno di una promessa tradita. Il mondo sembra in evoluzione, in corsa verso un progresso prefigurato dallo stile essenziale ed imponente degli edifici, e dalla potenza che viene attribuita alla scienza medica e farmacologica, a cui si affidano le esistenze dei malati e dei sani. Si tratta, però, di una magia di facciata, di uno spettro che aleggia sul vuoto, irradiando il nulla con la sua sofisticata e pretestuosa rarefazione. La vicenda appare ferma, come presa in ostaggio dal senso di una sconfitta generale e definitiva, benché dal carattere indeterminato: una condizione data per acquisita, ed in via permanente, eppure non ancora superata, perché ancora visibilmente pervasa dal rancore. È dentro quel minuscolo spiraglio di incertezza sull’irrimediabilità del destino che i personaggi trovano il loro ristretto spazio vitale, un piccolo margine all’interno del quale provare a dire e a fare qualcosa. Questo film trasforma la distanza e l’inutilità in un disagio collettivo, che, tuttavia, per effetto dell’incomunicabilità, si disgrega in singoli drammi individuali, dai tratti irregolari, proiettati sulla realtà come schegge di una lenta, eppur gigantesca, esplosione. La fine è già in atto, però non se ne vedono i contorni. E così si resta dentro il suo dominio sterminato, invocando disperatamente l’arrivo del buio. Ad esempio, quello derivante dalla rivelazione di una verità crudele, come il tradimento commesso dal proprio stesso sangue. Oppure la fitta oscurità prodotta dalla barbarie autentica ed esplicita, che è una brutalità animalesca e primordiale, operante in concreto sulla materia, con la coraggiosa ferocia di una creatura selvaggia. Può essere questa l’unica via di scampo da un male subdolo e sfuggente, inafferrabile perché incorporeo, costituito da un’alchimia a base di documenti e di medicine, e circondato di bugie e di sottintesi. Il film dell’esordiente Joni Shanaj è un racconto incompleto che implora di non essere lasciato a metà: la storia di un presente in cerca di un epilogo qualsiasi, che non si chiami necessariamente futuro, ma che sia comunque in grado di chiudere un discorso troppo logoro e lacunoso per poter essere portato avanti.
Pharmakon ha concorso, per l’Albania, al premio Oscar 2013 per il miglior film straniero.
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