Regia di Eli Roth vedi scheda film
Si rischia, in questi casi, di partire prevenuti. Purtroppo Eli Roth ha abituato a prodotti che all'evidente ostentata prurigine nei confronti di una rappresentazione banale e scontata, leggasi gratuita, della violenza, aggiungono una certa qual furbizia, probabilmente quella che a coloro che apprezzarono Hostel sembrò addirittura una chiave di lettura in senso politico. Nonostante l'evidente fallimento di un altro barboso esperimento quale fu Cabin Fever (è solo Hostel part II l'unico film parzialmente riuscito dell'amicone di Quentin Tarantino), Eli Roth torna ancora all'attacco, assumendo come presupposto quello di una nuova modalità della rappresentazione della violenza, stavolta ambientata nella giungla amazzonica peruviana, dove le aziende cattivone stanno per distruggere ettari ed ettari di flora (e fauna annessa) per i giacimenti sotterranei di gas. Un gruppo di ragazzelli che si credono furbi, o responsabili, o dio sa cos'altro, partono alla volta della foresta per compiere un atto rivoluzionario, fermare i bulldozer trasmettendo in diretta streaming l'iniziativa, in maniera tale da "ricattare" le guardie armate e proibire loro di sparare. La protagonista, l'incapace-dagli-occhi-spalancati Lorenza Izzo, si convince non si capisce bene come a prendere parte a questa iniziativa, dopo un noiosissimo incipit di presentazione, che non fa altro che rendere conto della piattezza encefalogrammatica dello script, costretto fra un gruppo di manifestanti per i diritti dei bidelli e una lezione universitaria in cui la protagonista si sente tranquillamente nel diritto di proporre il suo punto di vista in piena spiegazione delle tradizioni più "barbare" dei popoli tribali africani. Ora, il discorso sul relativismo della morale non è nuovo, né a lungo andare particolarmente interessante, ma neanche il tempo di proporne le problematiche base, ha inizio il viaggio, e si propongono tutti gli ostacoli che i giovani idioti non avevano previsto e che invece sono costretti ad affrontare. Ma la "presentazione" è finita?
L'evoluzione della trama è presto detta: l'aereo di ritorno crolla vicino all'insediamento tribale di un gruppo indigeno particolarmente violento, che compie riti sacrificali che coinvolgono cannibalismo e cottura delle carni umane. Roth non ci prova nemmeno a conferire barbarico fascino ad eventuali arcane tradizioni, nemmeno dal lato folkloristico: quello che gli interessa è la perizia di dettagli della macelleria. Quindi, dopo aver mostrato metà pene del Juni di Spy Kids, Daryl Sabara, che vedere in simili vesti mette a disagio chiunque sia cresciuto con il gioiello di Robert Rodriguez, si passa al tentativo da parte del gruppo di sopravvivere non appena è chiaro che gli indigeni sono ostili. A quel punto ci vediamo a confrontarci con una violenza che Roth è tanto abile a preannunciare, e con cui è altrettanto abile a deludere. Grezza ma raccontata con una regia del tutto assente, dotata di un'ipercinesi che dimezza il voyeurismo, la carneficina della prima vittima, ma anche di altre, appare davvero lungi dal fare impressione. Certo, se funziona per gli stomaci più deboli, non porta in fin dei conti a nessun'altra reazione se non alla totale indifferenza. E sfornata quella, poco rimane, in un filmaccio come The Green Inferno. Il dialogo con i cannibal-movie del passato è assente, solo Cannibal Holocaust rappresenterebbe un'ideale punto di riferimento: l'inquadratura iniziale è analoga a quella di Deodato (la foresta dall'alto), e l'utilizzo della videocamera (stavolta degli smartphone) è altrettanto insistita. Osiamo pure dire che The Green Inferno avrebbe avuto più senso se fosse stato un mockumentary, poiché aveva tutte le carte in regola per giustificare l'utilizzo del formato found footage. Peccato che Eli Roth sia sempre capace di gettare ogni occasione nell'immondezzaio.
Scontato, poco sgradevole, "sporcato" da riprese in digitale sciatte e quasi improvvisate, al limite del generalismo razzista (i ragazzetti sono sconvolti perché vedono un bambino e i suoi genitori tutti su uno stesso motorino, ma non sanno che questa non è prerogativa del terzo mondo, basta girare in centro a Palermo, Sicilia, nel bel tecnologizzato occidente), The Green Inferno è l'ennesimo passo falso di Eli Roth. Non lascia scampoli di riflessione alcuna, forse solo nel finale, in cui il trash raggiunge vette insperate, e ci sono un paio di capovolgimenti che lascerebbero intendere un percorso di formazione totalmente assente, stupido e inverosimile da parte della protagonista. Le uniche domande che ci si pone è cosa arriviamo a vedere, nell'ambito dell'esibita violenza, o meno. Perché poi non convince il rapporto tra la protagonista e il bambino indigeno, non convince il ritratto della natura incontaminata (terribile il giaguaro nero), non convince l'atto di denuncia ambientalista. Dunque ecco cosa rimane: mostrate mezzo pene di Daryl Sabara e non mostrate nessuna nudità femminile? Anche quando la protagonista Justine sta per ricevere la tanto temuta infibulazione, che le provoca indignazione ogni notte da quando ne ha sentito parlare a lezione, questi "barbari" sono abbastanza pudici da volerla mutilare con tanto di perizoma di sopra? E che dire poi delle ellissi su alcune delle pratiche culinarie, o sulla nutrizione delle formiche carnivore (orribile scena che ricorda la più brutta e stupida tortura di Hostel part III)? The Green Inferno crede di mostrare, ma non mostra nulla; e questo non è la celebrazione del non detto, o del non
mostrato (Eli Roth non sa né ha mai saputo cosa sia), è la celebrazione dell'incompetenza.
A fine film, col cliffhanger post-titoli di coda che minaccia il sequel e l'immagine finale della maglietta del Che, ci si chiede: come può tanta latenza di idee originali e forti a generare, di fatto, Cinema? Dov'è l'orrore?
Fiera del ridicolo involontario (la scarica di diarrea o la sega in gabbia sono i punti di nonsense più alti), The Green Inferno è un film di imbarazzante demenza.
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