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The Green Inferno

Regia di Eli Roth vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Green Inferno

di amandagriss
6 stelle

 

week end con il morto

 

Eli Roth, giovane regista horror contemporaneo, fra le personalità più autorevoli del settore (lo si voglia riconoscere o meno), che negli anni zero ha riscritto con appena un paio di pellicole (il disturbante Cabin Fever e il radicale Hostel) le regole di un cinema di paura che paura non ne faceva veramente più -tra l’orrore esangue orientale e quello più vicino a casa nostra (pavido, insipido, patinato e autocensurato, impantanato nei sempiterni esasperanti meccanismi assassini da elettroencefalogramma piatto)-, ritorna in sala con un’altra (la quarta) pellicola estrema, assolutamente fedele alla sua idea iniziale di filmare la paura principalmente attraverso un discorso visivo, soprattutto in un momento, quello del suo esordio, in cui il pubblico si mostrava avvezzo se non anestetizzato allo spavento addomesticato, e provare a lasciare un segno forte, chiaro, concreto di quanto il genere horror fosse ancora capace di osare in termini di sangue versato.

E perché no, anche di far tremare, creare disagio, instillare malessere. Di non farsi così facilmente dimenticare, scivolando via appena riaccese le luci in sala.

 

Cresciuto a pane e new horror (i politicizzati Tobe Hooper e Wes Craven) e portandosi nel cuore la preziosa lezione dei nostrani maestri dell’orrore targato B movie -dove quel B sta per maggiore libertà di espressione in termini di contenuti e violenza- su tutti il feroce Umberto Lenzi e l’amatissimo Ruggero Deodato a cui The Green Inferno è dedicato (i titoli di coda parlano da soli), il cinema di Eli Roth non poteva che essere un cinema ‘carnale’ che affonda la sua ragion d’essere immagine nello strazio e nell’agonia della carne.

Senza distaccarsi dagli stilemi del genere, piuttosto riprendendoli e rimaneggiandoli, conservando altresì una certa fattura grezza, da low budget, creata ad arte (secondo gli insegnamenti del sodale Quentin Tarantino), Roth realizza opere horror che volutamente sanno di già visto, calate in contesti contemporanei, per sondarvi, con eccezionale acume e un pizzico di sagace ironia, gli umori dell’oggi, le tendenze, gli stili di vita, le pecche ed i pregi, i vizi e le virtù, le innumerevoli idiosincrasie del popolo occidentale, per rilevarne, poi, i risultati (disastrosi) del suo impatto sul mondo.

 

Arrivare a realizzare un film sul cannibalismo, alla maniera del filone-sottogenere cannibalico tutto italiano (anni ’70 inizio ’80), non è che un traguardo naturale nel percorso a tappe del regista.

Prima la febbre sconosciuta che intacca senza pietà e pudore i corpi sani e belli del solito gruppo di ragazzi e ragazze di buona famiglia giunti nel solito cottage di campagna per trascorrere uno dei tanti soliti week-end lontani dalla frenesia cittadina e le pallose attività quotidiane; poi il turismo assassino negli ostelli dell’est europa per giovani audaci e arrapati viaggiatori, soprattutto se yankee (imperialisti nel dna), soprattutto se ricchi, che finirà per tradursi in una spirale di violenza grandguignolesca senza frontiere né patria; adesso, un manipolo di ragazzotti che, ammaliati dal carisma(?) del santone leader maximo di turno con velleità da salvatore del mondo, il classico giovanotto (pseudo)impegnato della domenica che bazzica gli ambienti universitari e raduna sprovveduti proseliti, trascorreranno il fine settimana nelle spire di un guaio fagocitante brutto assai, che ha tutto il sapore dell’avventatezza, della superficialità, della menzogna, del raggiro, del tornaconto personale.

Della pazzia e dell’insoddisfazione da benessere.

Della necessità di evadere dal proprio opprimente microcosmo.

Del senso di colpa di una società borghese e privilegiata. Annoiata e priva di stimoli.

Che finisce, sempre, tutte le volte, per autosterminarsi.

Roth ha sempre insistito su questo punto; è il fulcro narrativo delle sue storie splat-plack (schizza e spiaccica) ed anche stavolta non smentisce l’intenzione di osservare l’homo sapiens sapiens in filigrana per tracciare ancora di esso, delle sue gesta, dei pensieri che ne affollano la mente, una mappa piuttosto dettagliata e parecchio desolante.

Il mondo cannibale delle tribù dell’Amazzonia peruviana che The Green Inferno apparentemente racconta è il contesto esotico in cui ancora una volta è calato il suo cinema-pensiero. Potremmo affermare che, in fin dei conti, il regista (autore e attore) statunitense realizza sempre lo stesso film, limitandosi a cambiare di volta in volta la location.

A lui, poco interessano gli usi ed i costumi degli autoctoni -qui un popolo semiprimitivo matriarcale- ; essi rappresentano uno strumento, l’ennesimo, per sventrare l’uomo occidentale, farlo a pezzi e sezionarne la forma mentis, le incrollabili convinzioni, i giudizi su ciò che, secondo la sua ottica incontrovertibile, è umanamente accettabile e su ciò che non lo è, su ciò che è giusto e ciò che, invece, è sbagliato.

Disossare, cuocere a fuoco lento e ridurre in cenere i suoi inviolabili tabù.

E fare a brandelli l’ipocrisia che lo divora come un cancro, metterlo innanzi alle proprie subdole e devastanti atrocità che uccidono comunque, le quali non differiscono poi tanto da quelle perpetrate dal vorace matriarcato, qui riportateci con dovizia di particolari.

Ma se la compatta tribù agisce secondo i dettami di arcaiche quanto solide tradizioni, l’uomo moderno occidentale civilizzato si muove e vive macchiandosi di ineludibili scempi che non contemplano più quella portata morale che gli ha permesso di autodefinirsi una creatura superiore alle bestie. Finendo col trasformare se stesso in una bestia, un essere mostruoso, distruttivo, spietato, il cui istinto ferino è la sua principale se non unica arma di sopravvivenza.

 

The Green Inferno ---verde come la fitta vegetazione lussureggiante e rosso (sangue) delle fiamme dell’inferno come la pelle degli indigeni cannibali--- affonda i suoi artigli affilati nel martirio dei corpi: molti e di diversa natura i prolungati momenti dedicati alla mattanza dei malcapitati. Eppure la sensazione che il regista diriga le scene più truci col freno a mano tirato è palpabile.

Per non eccedere nel disgusto, forse. Di certo, per non pendere il filo della narrazione e scantonare nell’exploitation (come tale fine a se stessa) ma inserirla in un discorso sensato, di cui Roth ha il pieno controllo.

Il regista ha urgenza di arrivare ad una conclusione (che poi è la cosa che gli interessa maggiormente), tirare le fila della trama imbastita, anche perché l’aspetto debole di questa tipologia filmica (esauritasi in fretta) sta proprio nella scrittura.

Infatti, il film, dopo un ottimo inizio, soffre di un momento di stanca nella parte centrale ampiamente dedicata al sacrificio degli ‘stranieri ostili’ per poi sfilacciarsi e perdere di nerbo nella conclusione, affrettata ma soprattutto colpevole di una certa faciloneria, o ingenuità o mancanza di idee, che francamente risulta irritante.

Affidarsi al mito del buon selvaggio per tenersi salva la pelle e uscire vivi e indenni dall’inferno in terra non giova affatto alla pellicola, fino a quel momento intrisa di forte realismo, seppur filtrato dal genere di appartenenza, anche se il colpo di coda che sovverte l’happy end ne ripristina l’equilibrio che pareva spezzato irreversibilmente.

 

The Green Inferno, col veto ai minori di anni 18, cavalca l’onda del cannibal movie. Risaputo come violento, cattivo, insostenibile. Per stomaci forti.

Il grado di efferatezza della pellicola si mantiene nella media.

La carica empatica è discontinua.

Potrebbe impressionare, sicuramente disgusta.

Ma non si arriva mai a vomitare. E a rimanerne sconvolti.

Tutto è perfettamente sotto controllo.

Un velo di delusione può trapelare laddove ci si aspetta chissà quali massacri a crudo, specie dopo aver apprezzato il nauseabondo mattatoio industriale del dittico Hostel, che, per chi scrive, risulta assai più efficace in termini di forza visiva e contenuti.

Ma per gli appassionati del genere, il cinema di paura, si sa, è come il maiale: alla fine, e di questi tempi, non si butta via niente.

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