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Stray Dogs

Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film

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La recensione su Stray Dogs

di Peppe Comune
9 stelle

Abbandonato dalla moglie e costretto a vivere di espedienti ai margini della città di Taipei, un uomo di mezza età (Lee Kang-sheng) cerca di guadagnare qualche soldo “indossando” il cartellone pubblicitario di un’agenzia immobiliare. Lui, che una casa non ce l’ha e vive dove capita insieme ai due piccoli figli (Lee Yi-cheng e Lee Yi-chieh). Perché l’uomo si sia ridotto così non è dato sapere, quello che è certo è che non se la passa bene, vittima, forse, delle sue mancanze e di una società che non sa più soccorrere chi è rimasto indietro. I piccoli figli sembrano non soffrire più di tanto della situazione, loro giocano e gli sembra divertente trovare sempre nuovi alloggi di fortuna. Nella loro vita ruotano tre donne (Lu Yi-ching, Chen Shiang-chyi e Yang Kuei-mei), che rappresentano tutte un solo scopo ideale : un punto d’appoggio quando occorre. O un vuoto che vuole essere colmato.

 

Lee Yi-Chieh, Lee Kang-sheng, Lee Yi-Cheng

Stray Dogs (2013): Lee Yi-Chieh, Lee Kang-sheng, Lee Yi-Cheng

 

“Stray Dogs” di Tsai Ming-liang è un film che nasce con la chiara intenzione di dare una sostanza visiva al senso dello sconforto che ha imprigionato la vita del genere umano. I personaggi del film si fanno specchio di una lucida e accorata riflessione sullo stato di generale anaffettività relazionale. Soprattutto l’uomo, corpo e anima di una forma estremizzata di disadattamento sociale, impegnato a sopravvivere ai suoi lancinanti silenzi, intento a lambire gli angoli più nascosti di una Taipei trasfigurata, come un cane randagio alla perenne ricerca di zone di protezione.

La tecnica cinematografica innanzitutto, restituita alla sua primaria attitudine di fare dell’essenziale l’attributo più prossimo alla purezza della messinscena. Pochi dialoghi, piani fissi insistiti e lunghi piani sequenza, tutto è funzionale per allineare il senso del vero all’artificiosità propria del mezzo cinematografico, per spiegare per davvero l’alienazione da sé dell’uomo contemporaneo, alla ricerca di un suo centro gravitazionale ma impossibilitato a farlo con tutta la serenità del caso.

Tsai Ming-liang è, a mio avviso, tra gli autori più incidenti del cinema contemporaneo, con una grande lucidità a rendere visivamente tutto il vuoto che in maniera più o meno evidente si impossessato della vita del mondo. Un cinema estremo e antispettacolare perché radicalmente proteso a giungere al cuore dell’infelicità in atto.

Le profonde crisi di sistema si alimentano attraverso le contraddizioni e le contraddizioni rappresentano, in concreto, la perdita di fiducia reciproca tra chi è delegato a gestire il potere e a prendere decisione e chi è chiamato a rifletterne gli effetti. Queste contraddizioni sono il punto focale del film (e del cinema dell’autore taiwanese direi) e Ming-liang non ce le mostra allargando lo sguardo sulla relazione in fieri tra le dinamiche sociali e gli individui che le subiscono, ma concentrandosi sull’essenzialità di vite allo sbando che rimangono ancorate al qui e ora per non soccombere del tutto. Solo ai bambini manca il senso delle contraddizioni, loro hanno il dono di non sentirne il peso, di rimanere innocenti nonostante tutto. Loro giocano, scherzano, riescono anche ad essere felici, nonostante vivano in maniera randagia, rubando pezzi di quiete dagli scarti del mondo (in un supermercato, in una spiaggia deserta, in un appartamento abbandonato, in spazi diroccati). Nonostante vivano con un padre che ha gli occhi invasi di malinconia.

La tecnica innanzitutto si è già detto. L’autore taiwanese usa i silenzi e i piani sequenza come per riempire di amara consistenza tutto il dolore che c’è. La macchina da presa è libera di andare dove vuole, di intrufolarsi nei ritagli di vita usando l’angolazione più idonea al momento e la luce più adatta allo scopo, senza chiedere il permesso e senza ricercare una propedeutica organizzazione della messinscena. Di fermarsi anche, e per tutto il tempo che vuole, svincolandosi dalla necessità di dover spettacolarizzare ogni tocco. La libertà usata da Tsai Ming-liang è quella di chi crede nella potenza creativa e immaginifica del cinema, che non deve mai preoccuparsi di dare spiegazioni, solo di mostrare come l’onestà dello sguardo può tradursi in coerenti soluzioni visive. Come mostra il fondamentale ruolo delle tre donne, tutte rispondenti allo stesso scopo ma frutto (meta)narrativo di tre stati d’animo differenti. Tre donne che non incarnano tanto la madre o la moglie, ma ogni madre o ogni moglie possibili, tante quanti possono essere i vuoti da riempire o le richieste d’aiuto da esaudire. Oppure l’insistere su elementi come l’acqua (c’è sempre tanta acqua nel cinema di Ming-liang), il vento, le crepe, la polvere, per loro natura liquidi, vaporosi, friabili, evanescenti. Tutti elementi che attraversano e che si lasciano attraversare, perché sintomo delle cose che naturalmente accadono e di quelle che si lasciano abbandonare.

Matrice caratterizzante del film sono i lunghi piani sequenza, dallo stile asciutto e antinarrativo. Almeno tre da mettere in evidenza. Il primo (7 minuti circa), poco dopo l’inizio. L’uomo è a lavoro, con il suo cartellone a pubblicizzare appartamenti da vendere, lui che vive insieme ai piccoli figli come un cane randagio. Il vento tira forte, l’uomo è immobile all’angolo di una strada trafficata. Ad un certo punto inizia ad intonare un inno patriottico in cui, evidentemente, non crede più. Le lacrime arrivano a invadergli gli occhi, più copiose della pioggia che inizia a scendere. Il secondo (11 minuti circa), più o meno alla metà esatta del film. L’uomo si sveglia, accanto a lui ha una composizione di verdure dalle fattezze antropomorfe. Inizia a divorarla con rabbia e dopo aver distrutto quello che potrebbe essere una sorta di surrogato sessuale affoga le sue pene esistenziali in grida di straziante dolore. Il terzo (14 minuti circa), precede di poco il finale del film. L’uomo e la donna sono l’uno dietro le spalle dell’altra. Rimangono lungamente in silenzio, ad ammirare un poster gigante che domina la parete di una casa abbandonata. Poi l’uomo si avvicina lentamente alla donna, come a voler ricercare in un caldo abbraccio quel calore umano che non riceve da troppo tempo.

Tre piani sequenza diversi tra loro che possono significare più cose allo stesso tempo : il desiderio di sicurezza, la regressione irreversibile del genere umano, il prevalere dell’istinto ferino sulla ragione, la corruzione dell’innocenza, la voglia di tenerezza. Tutti significati che posseggono un livello più o meno marcato di simbolismo ma tutti che conducono ad un’idea pura di cinema. Che sarà ermetico quando si vuole, ma che intanto si dimostra capace di mettere l’astrazione artistica al servizio di una rappresentazione plausibile del dolore del mondo. Un cinema adulto, che ci mancherà tanto quando nessuno avrà più il coraggio di fare con tanta prodigiosa ostinazione.                

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