Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
Due ore e un quarto di nulla d'autore.
Ci sono film sui quali è divertentissimo non soltanto scrivere l’ineluttabile e meritatissima stroncatura, ma anche immaginare gli alti pensieri che il bidone in oggetto ha senz’altro stimolato nella critica-che-ne-sa, oltre che nei giurati – in questo caso di Venezia - che hanno omaggiato il nostro Cani randagi del Gran Premio della Giuria. Ci diranno quindi che il film è una memorabile e taciturna introspezione sulla condizione di una famigliola senza fissa dimora, seguita passo passo nell’interminabile scorrere delle vuote giornate. Ci diranno che è una riflessione sull’antitesi fra la povertà assoluta di mezzi economici e la ricchezza dei rapporti umani e intra-familiari: la famiglia come risposta alle avversità, come forza ribaltante delle diseguaglianze sociali. E potrebbero pur essere delle osservazioni calzanti, se solo Stray Dogs fosse un altro film, e non fosse invece quello che è, un accozzo dissonante di silenzi colmi di nulla e di “fermi immagine in movimento”, ossia inquadrature quasi-statiche la cui gargantuesca lunghezza fa schizzare la durata del film ben oltre la soglia di guardia – e di digeribilità. La “scena madre” che chiude il film, se così si può chiamarla, dura tredici minuti. La donna davanti, l’uomo dietro che la guarda, in uno stanzone disadorno di un casermone abbandonato. Così, per tredici minuti. Fate in tempo a prepararvi un caffè, farvi uno spuntino, e state pur certi che al vostro ritorno li ritroverete allo stesso punto. Vi prego di perdonarmi se vi ho rovinato il finale. Sarà anche cinema post-post-moderno, sarà lynchanesimo riletto in chiave orientale, chiamateci pure retrogradi, ma che nostalgia le antiche narrazioni.
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