Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
Stare al mondo...
...stare nell'immagine, ma essere altrove, lontano dagli altri. Gli occhi si sporgono oltre un ramo, cercano di oltrepassare il traslucido delle superfici, tentano di ovviare alle difficoltà intercorse nel guardare le figure, nello Spazio infinito che sta nei luoghi della Terra, con l'umanità che vi si muove peregrina e muta, come tante stelle fisse e indifferenti che però agiscono, piuttosto che scrutare. L'aria stantia dei luoghi più chiusi e cadenti è il contorno di macerie umane collassanti, freddamente impostate negli arrugginiti meccanismi dello stare al mondo, in un momento in cui domandare il senso della vita non ha più significato. Agire, dunque, come cani randagi nel soddisfacimento dei propri bisogni, per rispondere a impulsi forse bestiali o a volte affettivi, che cozzano inesorabilmente con un creato pietrificato, dove l'istinto non procura più vitalità, ma è risposta immanente al proprio insistito immobilismo (vero sostrato dell'illusione del movimento). C'è modo e modo di fermarsi, di fissarsi in un punto dello spazio, congelare quello spostamento delineato da vettori continui ma caotici, tracce del nostro unico destino, il presente: o fingersi un'asta che lotta contro il vento gelido e l'aria uggiosa, nel bel mezzo del traffico metropolitano che ignora e passa oltre, mentre si intona, con le lacrime agli occhi, un canto di ambita ribellione contro il mondo, oppure fermarsi e scoprirne un altro, di mondo, che possa generare commozione, non nel luccichìo disumano delle luci artificiali, ma nei bui riflessi che aprono lo sguardo sugli oggetti. Si tratta di creare un altro universo, di donare vita alle cose, trasformare l'inerzia in cinesi, Cinema, perché si muova, perché smuova qualcosa, dentro l'animo nascosto in un andito di noi. Ché forse dobbiamo riappropriarci del guardare per affrontare il reale con l'Altro, che è brillante chiarore di una notte senza stelle. Scoprire l'Altro è un po' come dargli vita; il mondo, senza lo sforzo dei nostri occhi, è roboante Nulla, da non poter vivere: di conseguenza il corpo è solo una superficie su cui disegnare due occhi e una bocca, prima che impulsi irrefrenabili ci costringano a "mangiare" una nostra nuova speranza, esperire la concordia. Un sentimento da ricreare dal basso, con i gesti più infantili e più puri, e da nutrire con una nuova capacità del vedere, del sentire, del vivere. Sarà quello sforzo a superare gli ostacoli dello sguardo: le setole traslucide di un'apertura, gli sportelli trasparenti di un frigo da supermercato, la vetrina di un locale, la pioggia, una selva di rami. Il respiro richiamerà alla memoria quel "concetto" di vita vissuta che non dev'essere più (non può essere più) spontaneo, ma comandato, perché possa proseguire con dignità: l'udito accompagni questa ripresa di consapevolezza, affinché la ricerca non sia vana, alla fine.
Stray Dogs è un film Ultimo, una pellicola finita, definita e definitiva, un atto di profondissimo amore nei confronti dell'essere umano e un ultimo strazio nel riproporre una poesia delle macerie, con inquadrature che nobilitano il lurido e uno spettatore ipnotizzato che dia vita alle cose col semplice contemplarle, trasformando la composizione scenica in composizione esistenziale:
<<Ci sono le crepe nel muro a causa dei fantasmi?>>.
<<Il muro è malato>>.
<<Che significa?>>.
<<Una casa è come una persona. Si ammala, invecchia. Le crepe nel muro sono come le sue rughe. Vedi? Ogni casa ha una storia.>>
<<Ma questa casa fa paura. Troppe crepe.>>.
<<Non aver paura, ti proteggerò io.>>.
<<Anche mio fratello?>>.
<<Vi proteggerò tutti e due.>>.
<<Perché la casa è in questo cattivo stato? Che è successo?>>.
<<E' un segreto.>>.
<<Dimmelo>>.
<<Un giorno è iniziato a piovere. Pioveva senza sosta. Pioveva così tanto, che l'acqua è entrata. La casa ha iniziato a piangere...e piangere...Non vedi le lacrime?>>.
Si vedono quasi sempre esseri umani nel film di Tsai, ma l'immagine più potente non li considera, se non alla fine di un lungo estasiante excursus visivo, che scruta leggiadramente le crepe di una parete, e dà loro vita. Un dialogo a tre, quello di questa sequenza, fra la donna, la bambina e la casa lacrimante. Una sequenza straziante, che fa piangere letteralmente. Come uno dei finali più potenti della storia del Cinema, come un urlo che ci chiede di fermarci, talvolta, di non seguire quelle spinte che ci fanno muovere, magari danneggiando noi stessi, e di contemplare le cose in un altro modo, da fermi al fine del vero movimento, non per essere inghiottiti, ma per stare al mondo nella maniera più giusta, con la propria vita (forse l'Altro) che ci piange sulla spalla, prima di riprendere il nostro viaggio, stavolta insieme. Al posto dell'Apocalisse, la rottura dell'incomunicabilità: rendere empatica e simpatetica (nel senso più profondamente umano) una visione, condividerla, e non vivere più soli.
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