Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
FESTIVAL DI VENEZIA 2013 - VENEZIA 70
Cani randagi si aggirano raminghi tra le macerie di case abusive semi sepolte da una vegetazione incontenibile. Una donna che lavora in un supermercato li raggiunge di notte munita di pila per donar loro le confezioni di cibo scaduto che altrimenti finirebbero al macero.
Altri tre "cani randagi", per status civile più che per specie di appartenenza, sono un padre quarantenne e i due figli di sei e dieci anni che, abbandonati dalla moglie e madre, si aggirano ai confini trasandati della metropoli vivendo di espedienti e, come i veri randagi, nutrendosi di campioni gratuiti di alimenti del medesimo supermercato, nonché di quei pochi spiccioli che il padre riesce a tirar su esponendosi agli incroci delle strade cittadine come uomo-sandwich con annunci di compravendite immobiliari, sfidando un vento gelido sferzante ed una pioggia gelida senza fine.
Ogni sera i tre occupano un appartamento di fortuna differente, lavandosi nei cessi pubblici, orinando dove capita. La disperazione, la solitudine, la rassegnazione e l'incomunicabilità sono i temi sovrani e guida di una cinematografia che non ha eguali e che, nel bene e nel male, non può lasciare indifferenti.
La discesa nel baratro della disperazione dell'attore feticcio Lee Kang-Sheng - quasi un Antoine Doinel dell'autore taiwanese, che lo ha visto crescere dai vent'anni ai giorni nostri in ogni sua opera con la medesima angoscia trattenuta e le sue ossessioni incontrollabili, i suoi dolori fisici e cerebrali - rappresenta la dissoluzione di una società dei vinti che abbandonano pian piano ogni stimolo ad andare avanti e si arrendono.
Nel film enigmatico e talvolta complesso da decifrare si contano (forse) tre donne che percorrono l'esistenza del padre e dei suoi due figli: una madre nelle scene iniziali che veglia i due bambini dormienti e si pettina la folta chioma nera. La donna sola e parimenti disperata del supermercato, che, ossessionata dagli odori, si prende cura della bambina e la lava e nutre nei pomeriggi in cui ella vaga nel locale commerciale e inoltre salva di due ragazzi da una folle traversata in barca intrapresa dal padre in una notte di tempesta, sottraendoli all'uomo sempre più in crisi; infine una donna che appare senza spiegazioni, che si unisce ai tre nel giorno del suo compleanno, e va a vivere con loro in una casa disabitata dalle pareti nere come la pece, quasi fossero un negativo di una foto (e in un certo senso il negativo di una comune ed armoniosa vita di famiglia).
In questa tetra abitazione entrambi gli adulti vengono attratti da una quadro che ricopre una parete di un intero muro, tra calcinacci e altre pareti disadorne: una stampa agreste che rappresenta una veduta di campagna in cui dopo un muretto a secco in primo piano, si apre a salire una vallata dolce coperta di vegetazione, oltre la quale una catena di montagne lontane non troppo aspre ne costituisce il limitare. Quella visione, forse in quanto paradisiaca, forse perché intesa come meta ideale di fatto irraggiungibile, paralizza i due protagonisti nell'ultimo (consueto, a dir la verità in molta parte dell'opera dell'autore) quarto d'ora totalmente contemplativo, in cui alle lacrime che sgorgano e trovano il tempo di asciugarsi, fa posto la meraviglia, l'angoscia e infine, forse, la rassegnazione.
Non è per nulla semplice seguire un autore del genere; ma lo stile di Ming Liang è ipnotizzante e il risultato senz'altro unico e stupefacente. Per molti certamente il fatto che Stray Dogs possa essere l'ultimo film dell'autore taiwanese suonerà come un sollievo. Per me che considero Tsai Ming Liang uno degli autori cult in assoluto, significherà perdere uno dei cineasti più originali ed interessanti, non solo stilisticamente, dell'ultimo ventennio.
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