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Venere in pelliccia

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su Venere in pelliccia

di FilmTv Rivista
8 stelle

Alla fine, Roman è tornato a casa. Meglio: in casa, luogo deputato alle vette della sua arte e unico porto sicuro in cui lasciare che il genio sedimenti, proliferi ed esploda su celluloide. Dopo le prove generali con l’elegante ma lineare Carnage, Polanski ripiega ulteriormente in quei territori tanto cari al gioco bieco e feroce dell’intimità, luoghi di perverso sfogo (auto)lesionista nei quali dimenticare per qualche ora le vacuità di Il pianista, le cadute di Oliver Twist, le incompiutezze di L’uomo nell’ombra. Due personaggi, un teatro che diviene appartamento, un copione tra le mani: Venere in pelliccia, dal romanzo erotico di Von Sacher-Masoch. Opera di attori, di campi/controcampi, di dialoghi da ripetere fino alla nausea nelle scuole di cinema, di interni filmati come ai bei tempi di Repulsion e Cul-de-sac. Ma soprattutto, opera di sovrapposizioni e di confini, di personaggi in cerca di loro stessi nel testo teatrale e perciò destinati inevitabilmente a sdoppiarsi e rincorrere l’altro (da, ma anche in) sé. In una progressione drammaturgica implacabile, la numerologia dell’apparente conversazione a due si dilata ben oltre l’effettiva dicotomia umana presente su schermo: Thomas diventa (anche) Severin, Vanda trova in Wanda un alter ego soltanto apparente, nel quale la moltiplicazione delle V nel nome è in realtà semplice espansione interna (le altre lettere sono e resteranno uguali), con vista su una natura fatale che esula dall’immanenza e ci consegna l’incarnazione dell’arte (suggestivo il caso, che vuole che Vanda citi Lou Reed e il suo Venus in Furs proprio mentre il musicista muore a Long Island). Arte che è donna, seduttrice e ammaliante, capace di contaminare Thomas/Severin al punto da piegarlo non solo alle esigenze del copione, ma anche e soprattutto a quelle del suo sesso, in un’inversione catartica di gender che ci riporta a L’inquilino del 3° piano. Thomas come Severin, dunque, ma anche Mathieu Amalric mimeticamente sovrapposto a Polanski, in una seduta di autoanalisi filmica in cui «non so neanche più dove mi trovo». E mentre l’autore ritrova e rinnova la natura dell’estasi creativa, la sua regia è in continua modulazione sui rapporti di forza tra i (quattro, poi tre, poi di nuovo quattro, infine cinque) personaggi, come guida linguistica all’opera più complessa, stratificata e illuminata dei suoi ultimi 30 anni.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 46 del 2013

Autore: Claudio Bartolini

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