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Venere in pelliccia

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Venere in pelliccia

di alan smithee
8 stelle

C'è sempre inevitabilmente una fondamentale componente diabolica nello stordente cinema di Polanski. Ora che da un paio di pellicole predilige, per vari motivi, l'angusta asfissiante aria viziata dei locali chiusi (appartamenti o sale di teatro che dir si voglia) il piccolo grande cineasta si trova a raffigurare nei volti di alcuni suoi protagonisti (sempre piu' circoscritti ma proprio per questo sempre meglio caratterizzati) le sembianze maligne di una possessione che sembra casuale, ma in realta' e' frutto programmato ed organizzato di un piano architettato nel modo piu' elaborato e scaltro. Vanda arriva in ritardo per una audizione e sembra la piu' improvvisata e stolta delle aspiranti attrici. In realta' e' colei che manovra la scena e i ruoli di regista ed interprete si invertono ripetutamente, impedendo quasi allo spettatore, assorbito da un labirintico rimpiattino tra lupo ed agnello, di capire esattamente "chi domina chi". E chi meglio della conturbante signora Polanski poteva incarnare, col suo sguardo penetrante da lupo della foresta, la Vanda diabolica che spiazza lo sprezzante adattatore e regista, disarmandolo e appendendolo letteralmente ad un cactus di cartongesso sullo sfondo di una scenografia bislacca ma seducente che mischia abilmente far west ad arredamento da salotto alto-borghese? Sono trascorsi quasi trent'anni da quello stupendo Frantic hitchcockiano in cui una ventenne in pelle aderente seduceva uno stordito Harrison Ford al ritmo di un seducente ed irresistibile Libertango di Grace Jones: ebbene eccola di nuovo la creaturandivina, al servizio del marito (di cui Mathieu Amalric, come notato da molti, ne costituisce ideale alter-ego): eccola algida e splendente, solo piu' formosa rispetto al passato ma proprio per qusto forse ancora piu' erotica che al tempo degli esordi. Il film ti soffoca al chiuso di un locale in cui presto o tardi comincia a mancarti l'aria e provi la senzazione del regista di entirti come accerchiato: proprio per questo anche stavolta come in Carnage, il regista sceglie sadicamente di aprire e chiudere le danze con immagini di spazi aperti: questa volta un viale alberato con la soggettiva dell'individuo che si dirige a passo deciso nel teatro; nel finale, consumata la vendetta, lo stesso individuo lascera' il locale e la cinepresa si soffermera' ancor piu' che all'inizio sulla facciata sinistra ma spettacolarmente seducente dello stabile che ospitera' la rappresentazione, qualora essa effettivamente potra' aver luogo. In fondo viene voglia di fantasticare ed andare oltre, quasi come se il diavolo si fosse trasferito dalle mura della casa di Rosemary, in una reggia piu' adeguata alle sue sinistre esigenze.

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