Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Polanski dirige un film classico, effervescente ma controllato, pacato e straordinariamente tradizionalista. Un film nostalgico, in un certo senso, privo della carica modernista seppur citazionista di Carnage, ricco di una verve e di un gusto elegante per la provocazione che avrebbe potuto fare scandalo cinquant'anni fa. Ma non è certo questo a rendere Venere in pelliccia un film inferiore a molte altre opere di Polanski. Adoratore dei drammi da camera come dei grandi affreschi storico-fantastici, il regista polacco si dimostra ancora una volta spaventosamente versatile nella scelta del genere, che con un'ironia che precedentemente non possedeva (in La morte e la fanciulla non ce n'era traccia, e in Cul-de-sac era così grottesca e penetrante da non destare il [sor]riso) vuole toccare direttamente le corde segrete del rapporto tra realtà e finzione, senza mai entrare in maniera perversa in quel rapporto ma mantenendosi in un equilibrio realmente da maestro, che si fa portavoce di entrambi i punti di vista dell'affascinante Emanuelle Seigner e dell'ottimo Mathieu Amalric, infida finta ignorante la prima e intellettual(oid)e il secondo, che si confrontano con sempre crescente violenza psicologica sulla portata eversiva e altamente erotica (o pornografica?) di un romanzo adattato per il teatro sul sadomasochismo. Mentre i rapporti umani, senza un filo di ostentato pessimismo, si spogliano delle loro prosaicità manifestandosi per quello che sono, rapporto vittima-carnefice, e esplodendo nel surrealismo più epico (il finale a ringcomposition che chiude la vicenda), la trama si arricchisce talmente tanto da quadrare in tutti i punti, da non lasciare alcun spazio vuoto da essere riempito, nonostante la profonda ambivalenza, anzi, ambiguità, dei miliardi di sottotesti dentro la storia, prevedibili quanto efficaci. Polanski ha un gusto raffinatissimo nel destrutturare i suoi personaggi, nel ritrarre massacri che implodono in spazi più o meno chiusi ma che si sentono pressati dalla realtà esterna: in questo senso la città sotto la pioggia, che banga l'edificio diroccato del teatro, sembra un regno dell'irreale, un enorme palcoscenico per ambientare la grottesca vicenda dell'essere umano. Giocando per accumulazione e non lasciando nulla al caso, con una profonda capacità di stupire e di colpire umoristicamente ad ogni singola sequenza, Roman Polanski riflette ancora una volta sulla perversione insita nei rapporti umani e nel rapporto fra un Uomo e una Donna che instaurano una drammatica lotta fra sessi (ma il sessismo non c'entra niente!, Amalric urla contradetto), quando Dio Onnipotente colpì l'uomo e lo lasciò alla mercé della Donna, che avrebbe saputo sfruttare l'uomo dalla sua bassa condizione sociale e avrebbe potuto trasformarsi da vittima in carneficie. Nel crescendo emotivo in cui Polanski gioca sulla verità e sulla finzione scenica, dimensioni che vanno sempre più confondendosi senza possibilità di un confine netto (e senza spazio per la razionalità, accennata da un breve discorso di lei sul motivo di tutto quanto ma mai accertata), i ruoli si scambiano, si confondono, "diventano" pirandellinescamente i propri personaggi, e questo perché un autore/adattatore vero non lascia mai che qualcosa rimanga privo della sua personalissima impronta. Così Emanuelle Seigner, moglie del regista polacco, è la moglie adulta ma ancora piacente, che conturba parecchio nella sua mise in Venere in intimo nero e che onnipresente non spiega la sua artistica "finzione" nella pièce e nella vita; così Mathieu Amalric diventa un (inquietantissimo) giovane Roman Polanski, che ancora pensa che l'arte possa controllare la pulsione (cosa che con il film in sé effettivamente si verifica, creando un ghiottissimo paradosso), ma che si rivestirà da donna come ne L'inquilino del terzo piano, che verrà schiacciato come, nella locandina, il tacco nero schiaccia gli occhiali; così il palcoscenico è un cinema da cui abbiamo imparato cosa aspettarci, ma che ancora sa destare, senza necessarie provocazioni, le nostre evidenti e passabili ambiguità. La grandezza di Venere in pelliccia sta nella chiarezza, nell'ambiguità tanto esibita da rivelarsi manualistica, ricca di fondamento ma volontariamente disinteressata a cambiare il modo di vedere le cose, secondo un gusto del classico che Polanski dimostra dall'inizio alla fine. Non c'è la sperimentazione di Carnage, che con il suo coraggioso non-finale non lasciava scampo nella vita reale: qui è tutto più contenuto, complesso, contorto ma immediato, trasparente, né per ingenuità né per semplicismo, ma per puro semplice equilibrio che sa nutrirsi del caos dell'arte. Un cinema che lascia soddisfatti in tutti i sensi, che appaga facendo pensare a cose trite e ritrite ma che ancora sanno trascinarsi dietro un fascino ineguagliabile.
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