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Venere in pelliccia

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su Venere in pelliccia

di (spopola) 1726792
8 stelle

Sotto una pioggia torrenziale, la cinepresa avanza scivolando leggera fra gli alberi che costeggiano il sentiero laterale di un boulevard, accompagnata (e quasi ritmata) dalle suadenti, giocose note di una musica che ha il tocco inconfondibile di Alexandre Desplat…. poi scarta verso destra, e mostra la facciata piuttosto fatiscente di un teatro (o meglio “du Theatre”) alla cui insegna corrosa dal tempo e altrettanto scalcinata, manca la H caduta chissà quando e mai ripristinata in loco.

La cinepresa scende vorticosa verso il basso avvicinandosi lentamente all’edificio, quasi volesse accarezzarlo…  davanti a noi l’ingresso, con le sue porte che si spalancano e si fanno “penetrare”… un piccolo movimento delle tende appena superato l’atrio, un sussulto quasi accennato, e si è finalmente dentro la sala ovattata e accogliente come una vagina: è fatta, e il “gioco” di questo ironico e stupefacente “faccia a faccia” fra i due sessi può così iniziare. Comincia infatti quasi subito e si fa immediatamente scoppiettante con le due parti in causa chiaramente dichiarate: il “servo” e il “servitore”.

Abbiamo solo il tempo di sbirciare il palcoscenico dove giacciono abbandonate le improbabili scenografie di un musical  precedentemente rappresentato ispirato a un western come Ombre rosse  (e non è un caso, se si considera soprattutto quello che è il titolo francese del capolavoro fordiano, un film che a parte qualche cavalcata, è fatto soprattutto di interni, di fragili e complessi rapporti interpersonali nel dualismo contrapposto “uomo/donna”). Le varie suppellettili, sono sparse ed ammucchiate un po’ dappertutto e fra queste, troneggia quasi imperioso anche un cactus di plastica (che ha a che fare ovviamente col “deserto” di quella messa in scena, ma che qui diventa un evidente, ”spinoso” simbolo fallico in bella mostra).

Siamo dunque pronti per gustarsi la “corrida”: se Thomas (il regista) solo nella sala vuota sta lamentandosi per l’infruttuosa giornata parlando col telefonino,Vanda è già dietro la tenda ad osservare e sta per irrompere sulla scena, spettinata, fradicia di pioggia e in perenne ritardo anche sull’orario dei provini. I due “contendenti” inizieranno così ben presto a dare fuoco alle proprie  polveri in un costante scambio dei ruoli (di per sé inesorabilmente e inequivocabilmente complementari) fra master e slave che è poi quella sottile relazione di reciprocità e interazione costante, in cui, necessariamente, il dominato e il dominante sono ampiamente collaborativi e interscambiabili, una peculiarità che costituisce appunto proprio l’elemento fondante (oserei dire il cardine) di quelle pratiche estreme basate più che sulla forza bruta, sulle capacità mistificatorie e affabulatrici della mente, all’interno delle quali ogni azione deve essere vissuta come un gioco ritualizzato scandito da precise regole, e dove non è mai possibile stabilire con definitiva chiarezza, chi è in effetti che tiene le fila, se la “vittima” o il “carnefice”.

 

Con Venere in pelliccia, girato con due soli attori praticamente in un’unica location che pur circoscritta fra quattro mura, la macchina da presa e la scansione delle scene e del montaggio riescono a dilatare rendendola dinamica con sorprendenti, costanti ed accurati movimenti  che danno respiro e aria a tutto l’andamento, Polanski rilegge così Masoch a suo modo (che è geniale, e devo dirlo subito) e – come già aveva fatto con la sua precedente opera (Carnage, nella fattispecie) - costringe i suoi due splendidi attori (Mathieu Amalric ed Emmanuelle Seigner) a caricarsi l’intero film sulle proprie spalle spingendoli con eleganza e forza (oltre che una buona dose di perfida ironia) dentro a questa travolgente, emozionante girandola meta-teatrale e meta-cinematografica allo stesso tempo, elegantissima e sontuosamente affascinante.

Tratta dal testo teatrale di David Ivens (che insieme allo stesso Polanski ha avuto parte attiva anche nel definire la sceneggiatura), grande successo americano del 2010 e a sua volta ispirato all’omonimo romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch pubblicato nel 1870, la pellicola - un film da camera con un congegno a orologeria che non sbaglia un colpo - è un prezioso gioiellino, realizzato con indubbia maestria da un grandissimo della settima arte che anche questa volta si conferma uno straordinario affabulatore che di nuovo ha fatto centro nonostante il limitato budget.

Si potrebbe obiettare forse che aggiunge poco alla sua poetica (si riprendono infatti molti dei temi che hanno attraversato le sue opere fino dai sui esordi e ci si ritrovano dentro tutte le radici del suo cinema fatto di campi e controcampi, a partire dal suo folgorante esordio con Il coltello nell’acqua, altro suo film con pochissimi personaggi girato en plein air ma nello spazio angusto di una barca) né che costruisce nuove prospettive a un esercizio di stile già portato alle estreme conseguenze proprio con Carnage (anche se qui a me sembra che nel suo straordinario modo di far fotografare gli interni dall’eccellente Pawel Endelman, si possono individuare ancor più specifiche assonanze con ciò che aveva già realizzato – e parlo della forma - ai tempi di Repulsion e Cul-de-sac), ma avrebbe davvero poco senso a mio avviso, e sarebbe come pretendere di trovare l’ago nel pagliaio. Godiamoci allora pienamente l’eccelso risultato, poichè qui ogni sua scelta, ogni inquadratura, è comunque sorretta da una (per me) inedita abilità registica che ha davvero pochi rivali che lo porta a  parlare – sia pure in forma traslata – anche di sé con una appassionata sincerità un po’ sorniona e molto coraggiosa che mette in scena (e a fuoco) ossessioni, nevrosi e debolezze, quasi con un sottile piacere ambiguamente disturbante e un poco “sporco” che indubbiamente ha molte connotazioni che riguardano il suo personale  (e privato) vissuto di vittima e carnefice. Con una forma che è giusto definire smagliante (e qui mi ripeto) frulla così arte e vita per farne un qualcosa di veramente universale che porta a sviluppare su quel palco non solo le turbinose dinamiche servo-padrone a cui accennavo prima, ma anche e soprattutto l’eterna guerra dei sessi elaborata con andamenti e soluzioni psicologicamente spietate che fanno lentamente lievitare le cose fino a farle diventare una profonda riflessione di e sul genere, ma col valore aggiunto di fonderci dentro tutta la dolorosa sottigliezza che riesce ad esprimere nello scavare e quasi scarnificare le pulsioni umane (e anche le cadute) sviluppate in una lunga e travagliata esistenza come la sua e dove, proprio per questo, Thomas e Vanda si sdoppiano, diventano quattro e più personaggi per rendere chiaro il discorso di un autore che a  80 anni suonati non ha smesso di fare ricerca (nuove forme e nuove  sensazioni) e ci regala così alla fine un’opera davvero fra le più illuminate, complesse e stratificate dell’intera sua carriera che presenta alcune dinamiche che richiamano e rimandano al sottovalutato Luna di fiele (e alla fine, qualche diversità strutturale ci si trova anche e riguarda proprio il differente uso della parola: se nella sua precedente fatica infatti veniva stigmatizzata fino a farla diventare uno strumenti conflittuale e divisivo con il suo chiacchiericcio costante e disturbante, in Venere in pelliccia sono alla fine proprio le parole a diventare un “gioco” non solo lessicale, ma anche di ruolo, quelle che permettono insomma a Polanski di fare della sua arte, vita e spettacolo.

 

E’ un film semplice e veloce, avere due soli personaggi non è stato un problema: la sfida è stata semmai quella di non annoiare il pubblico con un numero così ristretto di “caratteri” da rappresentare e un solo ambiente da filmare: per quel che mi riguarda, l’ho trovato eccitante come una scommessa. (Roman Polanski)

 

Polanski  non rinuncia alla sua abituale ironia nemmeno nelle sue dichiarazioni “a latere” del film quando, rispondendo alla domanda di come era riuscito a gestire il rapporto con gli attori, dichiara: il rapporto con gli attori? Li ho dominati, il film parla di questo… sì, li ho anche schiaffeggiati, ma non si sono mai lamentati.

Scherzi a parte, sono parole queste che molto aiutano a comprendere che nonostante la pesante eredità del testo, il masochismo (inteso come perversione) è stato soprattutto per lui la molla che agita le acque, utilizzato per portare a galla molte altre tematiche, in questo singolar tenzone che non lascia scampo, esemplare e a suo modo esilarante rielaborazione teatral-cinematografica non a caso racchiusa fra due estetizzanti carrellate a inizio e fine film che circoscrivono ed esaltano una vitalità artistica addirittura imbarazzante – per gli altri s’intende, non certo per lui.

Se all’origine, come già in Carnage,c’è una commedia (io preferirei definirla un dramma), frutto come si è già visto della intensa scrittura di David Ivens, Polanski esattamente come aveva già fatto con Ariel Dorfman (La morte e la fanciulla) e con Il dio della carneficina (Carnage) di Yasmina Reza, ci lavora di fino e “scombina” molte cose: se all’apparenza sembra rispettarne perfettamente l’andamento (nel senso che non lo elude, non lo manda all’aria e nemmeno lo stravolge) riesce con pochissimi accorgimenti aggiustativi,  a crearne dentro , un ipertesto che ha una nuova “diversa” consistenza che lo rende completamente malleabile sotto le sue mani suo, o meglio, gli consente di tradurlo in un elaborato perfetto per la propria visione autoriale, grazie a un gioco di specchi e di riflessioni sulle identità e i generi, capace di “sballare” le coordinate ontologiche (riferite alla struttura dei personaggi) e di farle diventare decisamente molto più stratificate e meno conformi del testo di partenza.

Non a caso, il suo esplicito alter ego (e quanto si somigliano Mathieu Amalric e il giovane Polanski lo potrete tutti verificare di persona) finirà per essere annichilito non solo (e non tanto) dall’impetuosa Vanda (non va mai dimenticato al riguardo che la Seigner è sua moglie proprio nella vita) ma anche (e soprattutto) dalla sua stessa molteplice identità: regista, attore, drammaturgo, personaggio, e quanto altro ancora?

A sottolineare non solo l’arguzia, ma anche il bon ton, e soprattutto il divertissement (questo davvero “sadico”) è la stessa Vanda (ribadisco: sua moglie) che a un certo punto appella il suo alter-ego con il termine  di “autore” e sembra così volersi farei simpaticamente beffe della sua dichiarata“autorialità”.

Come qualcuno ha già scritto prima di me, ci vuole davvero non solo un immenso coraggio intellettuale unito a una massiccia dose di autoironia nel porsi in una posizione così scopertamente “criticamente ”vulnerabile, ma anche e soprattutto una sconfinata fede nel potere salvifico (anche assolutorio) del cinema e dell’arte tutta.

Siamo dunque di fronte a un Polanski incredibilmente tagliente che non teme di spiattellare davanti e dietro la macchina da presa,  le idiosincrasie e le ossessioni, le manipolazione e il desiderio, la fragile vanità del demiurgo e i giochi di ruolo combinati con la psicanalisi, la claustrofobia artistica e quella esistenziale, il tutto mischiati insieme dentro a un calderone ribollente zeppo di rimandi sadomasochisti che lui rimesta a dovere alleggeriti  però da un tocco autoriale leggero e disincantato che spinge il tutto verso l’alto e lo fa lievitare.

Due personaggi soltanto all’appello, dunque, ma che si moltiplicano miracolosamente sotto i nostri occhi (che diventano persino – come credo di aver già fatto ben comprendere - anche in una emozionante “traslazione familiare”): rendendo Amalric incredibilmente somigliante a se stesso sia pure in una precedente età, facendolo affiancare da sua moglie Emmanuelle Seigner, Polanski crea infatti  una sovraesposizione capace di far diventare questo gioco al massacro tra i due sessi, di cui è pervaso il testo, ancor più intrigante, stratificato e ambiguo. Chi è in scena? la donna o l’attrice, l’uomo o il regista? i personaggi di oggi o quelli del passato immortalati dal romanzo? Perché qui dentro, nell’infinito scambio rifrattivo, Amalric/Polanski e la Seigner, finiscono per assumere di volta in volta il senso e le forme indotte non solo di Thomas (il regista della finzione) e di Vanda ma anche di Severin e di Wanda (quella della doppia W del libro di Masoch). Quasi una seduta autoanalitica insomma in cui “l’autore ritrova e rinnova la natura dell’estasi creativa” (Claudio Bartolini)

 

Sono cresciuto a teatro, a 14 anni ero già protagonista sul palco in Polonia; in questo caso sono passato dalla stanza prove della pièce al palcoscenico, con un set ricostruito che mi ha concesso grande possibilità di movimento, azzerando la claustrofobia di uno spazio chiuso. (Roman Polanski)

 

Il lavoro di adattamento ha giustamente prodotto qualche taglio al testo, ma soprattutto a fare la differenza, è stata la decisione di spostare il luogo dell’azione dalla saletta delle prove prevista dall’originale, a un teatro vero e proprio, sia pure ricostruito in studio: la scelta consente di “allargare” rendendo meno statici (al resto ci pensa l’abilità del regista) i movimento di macchina  e azzerare così l’effetto claustrofobico tipico di tanto teatro al cinema , anche se in questo caso non ce ne sarebbe stato un eccessivo bisogno, poichèé i colpi di scena, le emozioni, i continui ribaltamenti nei rapporti di dominio, rendono davvero impossibile annoiarsi in questo scontro/incontro tra i sessi dove l’attrazione erotica è un’arma in più, peraltro sfoderata con chirurgica precisione:  e l’onnipotente lo colpì. E lo consegnò nelle mani di una donna (epigrafe del libro di Leopold von Sacher-Masoch che è la sintesi perfetta del grande lavoro compiuto da Polanski con i i due personaggi che come già si è detto, si  moltiplicano miracolosamente sotto i nostri occhi, diventano infiniti  perché sono davvero il prototipo di ogni uomo e di ogni donna.

 

Parigi, un teatro: il regista Thomas (Mathieu Amalric) è esausto e si lamenta al termine di un’intera giornata  buttata via a provinare tante attrici talmente cagne da non poter avere una pur minima possibilità di essere capaci di incarnare Wanda nella pièce La Vénus à la forrure e rendere realistico quel ruolo di donna elegante e aristocratica che si deve imporre fin dal primo istante in cui appare in scena allo spettatore e deve sedurre l’interlocutore fino a farne il suo schiavo. O forse è Thomas ad essere nevrotico, o piuttosto talmente misogino da essere per definizione “incontentabile”? Non ci è dato di saperlo perché i provini non ci vengono mostrati.

Ma ecco arrivare all’improvviso e fuori tempo massimo un’ultima aspirante al ruolo che si chiama Vanda per davvero (anche senza la doppia v), o almeno così dice di chiamarsi: aggressiva,  fradicia, scarmigliata e apparentemente svitata, volgare e sboccata come una squillo di bassa lega, sull’orlo di una crisi isterica. 

Thomas è stanco, ha fame, non vede l’ora di andare a casa, vorrebbe solo liquidarla al più presto, ma lei si impone, tira fuori dal borsone un abito ottocentesco, lo indossa, e… zac!, diventa Wanda e con una forza indotta e non solo erotica, finirà ben presto  per travolgere Thomas, mentre la finzione scivola lentamente via e inquietanti sprazzi di verità entrano in scena in un finale straordinario che ci rimanda (ma non voglio raccontare di più) alla trasformazione gender de L’inquilino del 3° pianoun altro capolavoro ingiustamente (e colpevolmente) poco apprezzato alla sua uscita, ma al quale il tempo ha poi reso ampia giustizia.

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