Regia di François Truffaut vedi scheda film
Semplice, dolce e commovente, con il Ragazzo Selvaggio (1969), Francois Truffaut mostra il suo lato più tenero con questa pellicola dai chiari intenti pedagogici, intrisa di ideali razionalistici mutuati dalla cultura illuminista francese, che ha contribuito a far si che la Francia risulti uno degli stati più avanzati al mondo dal punto di vista culturale e scientifico, dato il continuo fermento che muove gli intellettuali di quel paese. Tratto da una storia vera ambientata nel 1798, il dottor Jean Itard (Francois Truffaut) si pone come scopo l'educazione ed il restituire alla civiltà, un giovane ragazzo di età tra i 10 ed i 12 anni, ritrovato completamente nudo (e curiosamente inquadrato anche nelle parti intime, cosa inconsueta per il cinema odierno data la scomparsa o quasi della nudità maschile, figuriamoci di quella di un minorenne) casualmente tra i boschi della campagna francese dalla gente di un villaggio, dopo aver vissuto probabilmente in tali luoghi per anni ed anni dopo l'abbandono.
Al contrario dei suoi colleghi che lo vedono come "un'idiota" impossibile da educare ed oggetto di curiosità e scherno da parte della popolazione mondana parigina che lo vede come un fenomeno curioso ed un balocco con cui dilettare la propria vista, Itard è l'unico a voler tentare l'impresa impossibile di civilizzarlo, così lo porta nella sua tenuta di campagna ed insieme alla propria governante madame Guerin, gli impone il nome di Victor e al contempo procede in lunghe quanto estenuanti lezioni per cercare di trasformare questo ragazzino dallo stato animale, in un vero e proprio essere umano civilizzato.
Girato in un sobrio quanto incisivo bianco e nero opera di Nestor Almendros, la pellicola ha l'andamento di un documentario-cronachistico di stampo pedagogico-scientifico, infatti ad interrompere i lunghi silenzi di una pellicola dai toni di un film muto con tanto di otturatore a diaframma per concludere molte scene, sono per più dei dialoghi molto funzionali per la storia narrata che non cercano virtuosismi elaborati nella scrittura o chissà che profondità contenutistica; la voce narrante di Itard, che annota sui fogli le osservazioni ed i progressi quotidiani compiuti da Victor, nonchè le gioie per ogni avanzamento verso quella fiammella simboleggiata dal lume della candela contro le tenebre della mente selvaggia del ragazzo e le continue frustrazioni per i numerosi episodi di regresso nell'apprendimento, risulta pregna di quella letterarietà di stampo scientifico-divulgativo da sempre stata una caratteristica del cinema di Truffaut, il quale la riutilizza in una pellicola per lui inconsueta, come se cercasse un modo per ricondurre tale opera anomala nel solco della propria filmografia, ed in parte vi riesce, anche se c'è da dire che questo espediente comporta un'eccessiva razionalizzazione su carta delle probabili emozioni del ragazzo, quando forse sarebbe stato meglio farle percepire tramite la macchina da presa.
La voce narrante comunque risulta giustificata se non necessaria ai fini della pellicola, perchè la sceneggiatura di Truffaut, si rivela frammentata ed ondivaga, senza un vero e proprio focus razionale nell'apprendimento di Victor; passiamo dalle lezioni di buon comportamento a tavola, all'uso del vestiario, al collegare significante e significato sino a tentativi di imparare le vocali con annessi tentativi di scrittura. La sceneggiatura di Truffaut vede la testa del povero Victor, come mero imbuto dentro cui infilare ogni insegnamento sociale e morale possibile, senza assicurarsi che il ragazzo abbia appreso appieno le precedenti nozioni prima di passare ad uno step successivo di più elevata difficoltà, da questo punto di vista il capolavoro Anna dei Miracoli di Arthur Penn (1963) è ben più scientifico, logico e razionale nel gestire l'insegnamento ad una ragazzina che si ritrova nella medesima condizione di Victor, forse più estenuante e ripetitivo nello schema di apprendimento, ma al contempo risulta più centrato e incisivo nel percorso d'insegnamento, con un tocco di dolcezza retorica nel finale liberatorio, elemento invece che innestato nell'opera di Truffaut risulta ridondante ed eccessivo, cozzando contro il rigido approccio scientifico-razionalista nel tono impresso al film.
Penn/America batte Truffaut/Francia, ma la pellicola del cineasta francese gode comunque della poetica del suo autore estranea tutto sommato all'opera del regista americano, secondo Truffaut il mito del buon selvaggio non sussiste essendo una mera leggenda, la missione civilizzatrice è l'unico modo possibile per dare una vita adeguata a Victor, il quale d'altro canto con nostalgia rivolge spesso lo sguardo verso la campagna come se attualmente combattesse una battaglia interiore tra la dimora in cui risiede attualmente ed i luoghi in cui ha sempre vissuto, non è un caso come Victor sia felice quando è all'aria aperta nelle lunghe passeggiate con Itard. E' una pellicola molto personale quindi, Truffaut sceglie di interpretare quella figura paterna autoritaria da lui tanto osteggiata, con un tono rigoroso, scientifico e d'impostazione letteraria, risultando perfettamente in parte perchè la sua recitazione umana e giustamente impacciata dato il compito prefissosi, in questo caso trae forza dall'inconscio vissuto della propria infanzia, il legame con Victor è un misto di studio e affetto, l'attore gitano Jean-Pierre Cargol è un'intuizione vincente, in un ruolo che richiede un'estenuante lavoro sul corpo per esprimere l'indomito spirito che non si piega all'autorità civilizzatrice, vista da lui con occhi di coercizione e non di naturale approdo. Una pellicola pedagogica con tanto di spirito positivo-illuminista sulla possibilità di riuscita della missione, decidendo di elidere in realtà il fallimento realmente accaduto nella vera storia, anche se alla fine con i suoi modi non sempre azzeccati, Itard e madame Guerin furono la figura più vicina ad un padre e ad una madre mai avuti dal ragazzo durante la sua esistenza.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta