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Lacrime di sangue

Regia di Hélène Cattet, Bruno Forzani vedi scheda film

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La recensione su Lacrime di sangue

di EightAndHalf
8 stelle

locandina

L'etrange couleur des larmes de ton corps (2013): locandina

 

La caleidoscopia della coppia Cattet-Forzani ci aveva già sconquassato e stroboscopicamente sconvolto nel loro lungometraggio d’esordio, Amer, curiosa incursione sensoriale nei tre momenti fondamentali della vita di Ana, che diventavano occasione filmica per indagare l’evolvere e la maturazione delle emozioni e le incertezze dello sguardo. Se possibile, in L’etrange couleur des larmes de ton corps il livello di esasperazione di questi aspetti raggiunge livelli ancora superiori, e ancora più stravolgenti.

 

scena

Amer (2009): scena

 

scena

L'etrange couleur des larmes de ton corps (2013): scena

 

Un uomo comincia a cercare la moglie scomparsa, quando torna a casa e lei non c’è più. Fin dalle prime sequenze l’occhio spettatoriale deve sopportare uno sdoppiamento schizofrenico fra il tragitto del protagonista a casa, e lo scorrere fotografico quasi markeriano della violenza che una donna, probabilmente la moglie stessa, sta subendo da un’altra strana figura, ricoperta interamente da abiti di pelle nera. L’indagine dell’uomo si rivela presto un incubo scopico in cui ogni “interrogatorio” diviene occasione per inabissarsi nei drammi esperienziali dei suoi vicini di casa, spesso testimoni di eventi terribili che, in qualche modo, convergerebbero tutti in una misteriosa figura femminile di nome Laura. Se in Amer la donna era sì in primo piano, ma appariva comunque come una figura misteriosa, insidiosa (per la donna stessa), traballante e fragile, da sostenere in tutte le asperità di un percorso esistenziale necessariamente e fisiologicamente turbolento, in L’etrange couleur  la donna diventa l’oggetto di indagine di un horror della vista dal carattere reiterato, forzato, disomogeneo, ma soprattutto maschile.

 

Klaus Tange

L'etrange couleur des larmes de ton corps (2013): Klaus Tange

 

Un vero e proprio film esploso. Eppure, Cattet e Forzani non hanno il mero scopo di disorientare lo spettatore. Ad un primo sguardo sì, quello sembra proprio l’obbiettivo principale, ma come in tutti i film più audaci, l’incenerimento delle certezze dello spettatore è la base, potenziale, per nuove fondamenta, nella direzione di una qualche scoperta o di un qualche ottenimento semico che però non ci viene promesso che raggiungeremo. È tutto, in maniera genuinamente cinematografica, affidato ai nostri occhi.

 

Il film della coppia di cineasti francesi dà l’idea della claustrofobia, della costrizione, della forzatura. Svariate situazioni si ripetono nei modi più astrusi, quasi a matrioska (presente in una breve sequenza del film), per colpire, geometricamente, l’inconscio, e divenire una parvenza significativa e trascinante. Eppure in realtà lo spettatore, di fronte al film della coppia di cineasti, è eccezionalmente libero, se lo vuole e se sa di esserlo. Si pensi alla sequenza del campanello, in cui si vede il protagonista alzarsi almeno sei, sette volte dal suo letto per andare a rispondere al citofono, mentre uno strano sguardo, preso in soggettiva (forse lui stesso sdoppiato) lo osserva da dietro un muro. Questa è una sequenza fondamentale nel film che intreccia non solo una possibile chiave di lettura per l’intera pellicola, ma anche un caso emblematico di come, dopo lo stravolgimento degli spazi filmici di Amer, ad essere sconvolto qui è un componente che in Amer in qualche modo sopravviveva, quello del Tempo. Il montaggio frenetico inserisce in una condizione altra, parossistica, iperbolica, in cui si inframmezzano storie, esperienze, traumi, shock. Spesso ad essere messo direttamente in gioco è lo sguardo stesso su se stesso, vedasi l’ossessione per gli spioncini, i buchi nelle pareti, le fessure, ma anche per gli specchi, i vetri e per le sovrapposizioni figurali, tanto che L’etrange couleur può essere a buon ragione considerato come un continuo, paranoico, sfondamento autoindotto della propria psiche.

 

Hélène Cattet, Bruno Forzani

L'etrange couleur des larmes de ton corps (2013): Hélène Cattet, Bruno Forzani

 

Sia in Amer che in L’etrange couleur, di fatto, potremmo stare assistendo a un suicidio, le cui ragioni irrazionali sono evolute nel tempo e hanno lasciato un’impronta soprattutto esperienziale, visiva, e, per estensione, profilmica, di cui veniamo resi partecipi. In L’etrange couleur piuttosto che rinchiuderci in un’intimità come in Amer, esplodiamo in una giostra polifonica di corpi che si ritrovano, di pezzi di puzzle che vanno a ricombaciare per poi scombinarsi, lasciando lo spettatore tramortito, confuso, ma pregno di una nuova visione del mondo.

 

Il rapporto uomo-donna è certamente nodale nel film. Ci sono più sequenze, ma soprattutto una verso il finale, in cui l’uomo, insieme ad altri misteriosi uomini che il protagonista incontra e che raramente riesce a vedere, scopre tramite documentazioni, foto o “illuminazioni” le verità imponderabili riguardanti Laura. La donna diventa puro mistero, così come nei classici noir, la femme fatale dal doppio ruolo: contemporaneamente, la donna appare vittima evidente, tanto che il film diventerebbe quasi un’esemplare messa in scena critica e feroce del maltrattamento del corpo femminile (le lame che percorrono l’incarnato femminile nelle immagini in bianco e nero è quanto mai disturbante), ma è, in altri momenti, soprattutto carnefice, come nella riapparizione di Dora, in cui sembra essere questa la responsabile delle follie che stanno circondando il protagonista. Quest’aspetto polisemico della figura femminile non va preso come gesto di arrogante autorialità che vuole disperdere le tracce del senso profondo del film, ma va considerato come il punto di partenza per una nuova messa in discussione del sé. A Cattet-Forzani non interessa raccontare una storia, né interessa far esplodere le proprie originalissime idee visive (che originalissime sono e non ci sono dubbi) per piglio puramente estetizzante, come in un ammorbante avvolgimento manieristico. Lo scopo, invece, de L’etrange couleur, è quello già citato di scavare dentro lo sguardo, dentro i meccanismi che dànno significato alle cose. La ripetizione delle situazioni riesce in qualche modo a smascherare il tessuto filmico, il supporto stesso, il film, sia quando le figure femminili si sovrappongono, diventano diverse pur essendo la stessa persona, sia quando l’immagine va a scatti, e siamo noi spettatori a colmare i vuoti, a ridare Tempo alle cose. Lo spettatore de L’etrange couleur non deve inseguire i registi, deve costruire il suo modo di vedere, e farlo vuol dire guardare se stessi, e accettare ciò che si trova.

 

Klaus Tange

L'etrange couleur des larmes de ton corps (2013): Klaus Tange

 

Il riferimento al sesso è continuo: ironicamente, il killer seriale e “virtuale”, svolazzante, di L’entrange couleur, uccide accoltellando sul cranio le sue vittime,  lasciando una fessura sempre uguale che richiama ad un antro vaginale quasi di cronenberghiana memoria: d’altronde, come non pensare a Videodrome quando le mani del killer, che sono le “mani di se stessi” e dell’autoanalisi, affondano nella carne dei corpi; così come il nome Laura non può non richiamare, immediatamente, alla Laura premingeriana e alla Laura Palmer lynchiana; in tal senso, l’ossessione per i riflessi, la frantumazione psichica, i labirinti della mente, le fessure nelle cose, come possono non ricordare, seppur con una grandeur non confrontabile, INLAND EMPIRE di David Lynch? E come non pensare a Repulsion di Polanski quando la parete di una camera da letto comincia a gonfiarsi , e le mani della donna che fugge scorrono proprio sotto di essa? E se non basta, seppur con ottime differenze, sarebbe possibile accostare il variabile carattere significativo associato alla figura femminile che propone il film a quello proposta da La vie nouvelle, capolavoro di Philippe Grandrieux, in cui era l’illusione stessa del cinema ad essere messa, sadicamente, a nudo. Dunque, il giallo all’italiana e il cinema di Argento e di Bava appaiono solo come un misero granello nell’immenso ricettacolo postmoderno dei due registi francesi, in grado di stravolgere senza pietà le direttive e le coordinate spettatoriali raccontandoci, con profondissima umanità, il sentimento più letale e più vivificante che possa caratterizzare l’uomo, e avvicinarlo di più al saper guardare: la curiosità.

 

Sylvia Camarda

L'etrange couleur des larmes de ton corps (2013): Sylvia Camarda

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