Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Finito il turno di lavoro ad un party natalizio, un cameriere torna a casa in bici, ma viene investito da un pirata della strada.
Film ad incastro, puzzle inestricabile come nei migliori romanzi letterari, Il capitale umano è un magnifico esercizio stilistico intrapreso da Paolo Virzì, che destruttura una vicenda semplice quanto tragica, dividendo il racconto in capitoli. Ogni capitolo un punto di vista, ma per lo spettatore ogni capitolo è anche l’occasione per aggiungere nuovi dettagli ad una storia drammatica che la strutturazione atipica fa diventare un giallo in piena regola. I personaggi principali sono essenzialmente quelli della famiglia Ossola (il padre Dino, la compagna Roberta e la figlia di lui, Serena) e dei Bernaschi (il potente magnate Giovanni, l’insicura moglie Carla, l’irrequieto figlio Massimiliano). Attorno, un bel po’ di personaggi che avranno più o meno importanza per lo svolgimento delle vicende.
Al di là del fascino intrinseco al racconto destrutturato (è sempre suggestivo rivedere la stessa scena da altre angolazioni), dietro la storia delle famiglie Bernaschi e Ossola c’è tanta carne al fuoco, figlia dell’intensa caratterizzazione dei personaggi, ognuno col proprio modo di concepire il “fallimento personale” e di intendere la vita. In particolare colpisce la volontà di riscatto sociale di Carla o il tentativo di arrampicata sociale di Dino, che ricorda a tratti quello della famiglia Malavoglia dell’omonimo romanzo di Verga.
Due Fabrizio (Bentivoglio e Gifuni) accompagnati da due Valeria (Golino e Bruni Tedeschi), per un cast bene assortito, che viaggia benissimo assieme, con l’ausilio di Luigi Lo Cascio, Bebo Storti ed il sorprendente Giovanni Anzaldo. La protagonista di fatto è però Matilde Gioli, esordiente a cui Virzì in fondo dà in mano le chiavi delle vicende, non solo dedicandole un intero capitolo, il terzo e fondamentale, quello in cui le carte si svelano, ma soprattutto la rende protagonista di un finale con morale, ma senza moralismo. Paolo Virzì realizza un adattamento molto verosimile del romanzo di Stephen Amidon, sostituendo Totten Crossing, nel Connecticut, con la Brianza, e lasciando inalterate alcune peculiarità dell’originale letterario, trincerandosi dietro la dicitura “liberamente tratto da…”. La provincia brianzola è una location assolutamente credibile; l’unica controindicazione, paradossale ma vera, è la cadenza biascicata e fastidiosa di Bentivoglio, l’unico del cast nato a Milano, eppure incapace di parlare il milanese.
Trionfatore ai David nostrani, nella lista dei papabili per le nomination all’Oscar, Virzì fa un ottimo lavoro e realizza un film memorabile: intenso, appassionante, cupo.
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