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Il capitale umano

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il capitale umano

di ed wood
2 stelle

Ho sempre considerato incomprensibile tutta la benevolenza generatasi attorno al cinema di Paolo Virzì. In particolare, non ho mai capito in che cosa e in che modo sarebbe l’erede della gloriosa commedia all’italiana, quella di Risi, Monicelli, Comencini, Germi, Scola, Age, Scarpelli, Flaiano etc…Ai miei occhi, i suoi film sono in gran parte apparsi mediocri, superficiali o comunque sopravvalutati dalla critica e dal pubblico (ad eccezione del discreto “Tutta la vita davanti”, ma più che altro per merito della Ragonese). Con “Il capitale umano” ha svoltato verso il dramma e i pareri favorevoli di chi lo considera il miglior risultato di Virzì mi hanno indotto a dare un’ultima chance al livornese. Ecco, adesso è ufficiale: con Virzì ho chiuso, definitivamente. E dire che era cominciato bene: il primo dei 4 capitoli che costituiscono questo thriller dalla narrazione in stile “Rapina a Mano Armata” (con la stessa storia vista da diverse angolazioni) è compatto ed efficace, retto su di una brillante regia e un convincente duetto attoriale (Bentivoglio, Gifuni), tramite il quale prende vita un attendibile affresco di vita imprenditoriale brianzola ai tempi della crisi, con una perfetta resa del dualismo ideologico fra il rampante capitale finanziario (rappresentato dal reticente speculatore Bernaschi) ed il pericolante capitale reale (rappresentato dall’ingenuo immobiliarista Ossola). Ma dal secondo capitolo cominciano i guai: entra in scena Carla, la moglie del Bernaschi, che vuole usare i soldi del marito per ristrutturare un teatro. Valeria Bruni Tedeschi, con la complicità di una regia indifendibile, compone un nuovo capitolo della ben poco prestigiosa saga tutta italiana delle recitazioni “ansimanti”. Ora, io capisco che Carla, da donna sensibile ed ex-attrice di teatro dilettante, abbia a cuore le sorti del Politeama, ma è proprio necessario che le venga da piagnucolare persino durante una riunione per decidere il programma del futuro teatro?! E che sia in lacrime pure un istante prima di concedersi all’amante, un discreto Lo Cascio, in una scena di sesso in linea con i (pessimi) standard italiani? (a proposito, Virzì: è inutile che mi fai vedere il pisello di Gifuni, le tette della ragazza e il culo del ragazzo, se poi mi giri delle scene erotiche così brutte). Per non parlare poi del litigio fra Lo Cascio e la Tedeschi, altra funesta pagina all’insegna di una imbarazzante approssimazione psicologica: lui (a petto nudo, con un pullover di lana sulla schiena, e vabbeh…) viene mollato a sorpresa da lei, ma sa già esattamente cosa dirle per contargliene di santa ragione, senza alcuna titubanza (questo è uno dei tipici “spiegoni”, che affliggono tanto mediocre cinema: momenti in cui viene fatto URLARE ad un personaggio il pensiero degli autori). Quando poi, col terzo capitolo, lo sguardo passa sui ragazzi, è la fine: il film deraglia nei binari del giovanilismo più corrivo e strumentalizzato. Frasi fatte, situazioni trite, facce e storie che hanno stampato addosso tutto il corredo di ovvietà già visto in almeno 20 anni di cinema di questo genere. C’è Massimiliano, il figlio maschio del Bernaschi, che si eccita al profumo degli interni in pelle del suo macchinone, che manda sempre affanculo la madre apprensiva e sente addosso la pressione del padre verso la competizione esasperata (scusate, ma davvero può esistere una reazione del genere da parte di un padre, come di un figlio, solo perché quest’ultimo si è fatto sfilare il premio “Cottafavi”…ma chi?!? il regista?!?!...per mano di una “nera”?! Ma in quale universo???); c’è la figlia dell’Ossola, classica morettina carina ed intelligente dagli occhioni blu, così dolce e sensibile da rifiutare i soldi di Massimiliano ed innamorarsi di Luca. E chi è ‘sto Luca? E’ un artista adolescente, con la mania dei teschi e dei pipistrelli, hard-rock sparato nelle cuffie a tutto volume, ripetuti tentativi di suicidio, e la sfiga di essere stato beccato ingiustamente con mezzo chilo di fumo: praticamente il bravo ragazzo creativo che però la meschina e conformista Brianza velenosa ha deciso di additare come causa di tutti i mali del mondo. Tutto questo, agghindato da figure e situazioni che definire superficiali sarebbe troppo: ad esempio, gli amici cafoni di Massimiliano, ripresi in una scena di 3 secondi nella quale dicono “negro” e “frocio”, tanto per sottolinearne razzismo ed omofobia; oppure lo zio sballato di Luca, che progetta la fuga a Formentera fra una canna e l’altra. Prima ancora c’era il leghista pragmatico con la soneria di Va Pensiero e il sostegno al Coro di Voci Padane (più o meno come nel film di Zalone, eh sì…), la giornalista isterica che afferma che “il teatro è morto”, e per fortuna che gli altri li ho già rimossi…Insomma, un quadro di gioventù e di provincia brianzola che più stereotipato non si poteva concepire. Va bene l’idea dell’affresco corale, va bene il bozzettismo: però non si possono tagliare con l’accetta i caratteri in questo modo, specialmente se si hanno nobili intenti di critica di costume; non si può pretendere di definire dei “tipi sociali” appiccicandoli addosso il luogo comune più scontato. Bisogna sapere essere ellittici, obliqui, raffinati; il senso di verità nel cinema si ottiene spesso togliendo piuttosto che aggiungendo, concentrandosi su un particolare marginale ma pregno di significati e non su ciò che il pubblico già si aspetta. Nel cinema di Virzì, è tutto così pletorico! Non c’è vita, a meno che non ci pensino gli interpreti. Idem per i dialoghi, dove c’è troppo, tutto spiegato, tutto evidenziato in grassetto. Ogni reazione è prevedibile; ogni sentimento è espresso a parole (il figlio che, da solo, esclama due volte “Che schifo!” pensando al tradimento della madre…dai, ma scherziamo?); ogni inquadratura è un pretesto per ficcarci dentro una lezioncina moraleggiante, uno spunto tematico che resta lì inerte, senza che diventi mai un sottotesto, un suggerimento per una interpretazione alternativa delle immagini che stiamo vedendo A nulla serve la macchinosa e presuntuosa (e già vista e stravista) costruzione “tarantiniana”, che riesce a mortificare persino l’avvincente principio-base del giallo deduttivo (il “whodunit”), se non a confermare che noi italani il thriller non lo sappiamo più fare. Vogliamo parlare poi di come è girata la scena clou?  La pioggia, il ralenti, la musica invadente, eccetera…E della frecciata finale della Tedeschi, che tutto d’un tratto capisce come funziona il giro dei soldi e passa da ingenua a sarcastica? E il titolo del film, spiegato (ancora!) dalle didascalie dell’epilogo, ma senza alcun reale appiglio alle immagini e alla rappresentazione viste in due ore di film…E il modo in cui un personaggio scopre chi è il vero assassino ve lo risparmio, perché è inconcepibile, un'offesa all'intelligenza dello spettatore. Davvero non capisco cosa la critica trovi di diverso in questo regista rispetto a tanti altri che, negli ultimi 20 anni, hanno fatto un cinema che, fra dramma e commedia di costume, ha trattato temi sociali. Cosa cambia, ad esempio, fra i film di Virzì e “Fame chimica”? Ditemi voi se cogliete qualche differenza, perché io non la vedo… 

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