Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Quanto vale un uomo? Si sta parlano non di valore morale , intellettuale o etico. Nulla a che fare con la natura umana, non quantificabile in termini monetari, così come la dignità o la sua anima. Si parla di prezzo. Di un cartellino ficcato con lo spillone dritto nel cuore a smorzarne ogni anelito di speranza. Se la retorica sui valori umani è blasé , ora che il valore umano neppure viene preso in considerazione, è sicuramente peggio. L’uomo ha un prezzo , il corpo diviso in tabelle, quantificato, soppesato. Soprattutto: che caselli occupa nell’organigramma della società? La divisione in fasce sempre più impermeabili è ben descritta in questo acidissimo film Paolo Virzì che abbandona la commedia classica per dedicarsi allo smembramento di ogni briciolo di umanità dei propri personaggi, stritolati come sono dalle incombenze della competizione e dall’arrampicarsi disperatamente verso una cima sempre più inviolabile.
Non esiste osmosi tra le classi. Semmai chi è più in alto munge chi staziona più in basso. C’è chi fa le regole e chi le subisce. Così ecco la storia ammantata di thriller che coinvolge due famiglie: i Bernaschi, coppia altolocata formata da uno squalo della finanza e una ex attrice di teatro fragile e confusa, vivono su una villa su un colle – posizione alta – e gli Ossola, medio borghese di buone condizioni economiche ma di scarse virtù intellettuali soprattutto nella figura di Dino , il capofamiglia (un grandissimo, dolente Fabrizio Bentivoglio) che anela ad arrivare là, sull’Olimpo senza avere ne’ capacità, ne’ carisma, ne’ soldi. Tra di loro si muovono le storie dei rispettivi figli, accusati di aver causato la morte di un uomo in un incidente stradale e di non aver prestato soccorso.
Il peggior lieto fine che c’è.
Finisce bene, Il capitale umano, dal punto di vista dei personaggi della storia. Ovvero ognuno troverà soddisfazione ai propri problemi. Ma non è uno spoiler. Le cose si aggiusteranno nel peggior modo possibile, ovvero con la menzogna, il ricatto, lo sradicamento dell’etica. L’abisso che fotografa in modo impietoso un paese alla deriva partendo dalle sue cellule primarie. Un tanfo che parte dal basso e si sublima in un mondo politico, che qui non si vede ma che come un Dorian Gray al contrario si specchia nel popolo e resiste a qualsiasi disastro mentre la società reale marcisce.
Il capitale umano è scritto da Paolo Virzì, Francesco Bruni e Francesco Piccolo adattando un romanzo ambientato nel Connecticut di Stephen Amidon. Film diviso in capitoli che abbracciano le diverse prospettive dei protagonisti, ognuno dei quali smentisce i fatti mostrati nel capitolo precedente, come a dimostrare che la verità, come la colpa, non è mai univoca. Anzi , le schegge impazzite che si affannano per un briciolo di salvezza sono animate da buone intenzioni ma realizzano il loro desideri con azioni turpi.
Una bipolarità autoassolvente tipica dell’intero paese. Personaggi mai colpevoli, autoindulgenti con le proprie mancanze, pronti a sbranarsi per le mancanze altrui. Una narrazione frammentata non facile ma tenuta in pugno saldamente da Virzì che tiene alla giusta distanza il confine della facile retorica come l’animosità del film di denuncia. Il capitale umano, che si riferisce come dice il cartello finale, ai parametri assicurativi che soppesano e quantificano il “valore “ di una persona nei risarcimenti civili, si spiralizza intorno ai vizi e alle (poche) virtù dei protagonisti che non sono ne’ buoni, ne’ cattivi. O lo sono entrambi, per questo credibili.
Questo ritratto nichilista viene accentuato per contrasto dal personaggio di Luca, l’unico personaggio che si assume le proprie colpe fino all’autodistruzione. L’unico che paga e tenta di rimanere puro. E guarda caso, agli occhi di chi guarda, proprio lui sembra il personaggio meno credibile, il più stereotipato.
Lontano dal trattato sociologico o dall’ instant movie sulla crisi, Il capitale umano è una commedia nerissima e fastidiosa. Il post berlusconismo di riporto , quello della classe media agiata e un po’ cafona che ambisce ai posti alti della società e ad essa sacrifica tutto, affetti-morale-dignità, si trasforma in un canto di morte di una classe sociale stritolata dalla povertà d’animo da una parte, dalla distruzione di ogni appiglio economico e sociale dall’altra. È la coda della lucertole che staccata dal corpo continua a dibattersi in un osceno simulacro di vita , quando invece è solo un riflesso nervoso che precede la fine.
Abbiamo scommesso sulla fine di questo mondo e abbiamo vinto. E’ il paradosso conclusivo, demenziale e criminale che ha permesso ad una generazione di puntare sulla fine e lavorare di fino per essa. Un mostruoso conflitto di interessi risolto col sorriso, un party e gli squali che si avventano sulle tartine.
Non può mancare il richiamo alla commedia cara a Virzì nel tratteggio di una decaduta elite intellettuale spiralizzatasi intorno alle proprie convinzioni, anch’essa fallita e incapace di evolversi rispetto ai propri limiti. La riunione della sognatrice e infelice Carla Bernaschi con grotteschi esponenti della cultura locale è il siparietto divertente che ratifica il definitivo affossamento di ogni possibile salvezza di una società allo sbando.
Bisogna parlare degli attori, le cui parti sono tutte scritte molto bene. La coppia Fabrizio Gifuni e Valeria Bruni Tedeschi (i ricchi e infelici signori Bernaschi del film), è di gran classe. Soprattutto l’attrice che interpreta Carla offre un personaggio dolente, tormentato e verissimo. La voce le esce come un sibilo strozzato , schiantata da una vita assurda della quale non ha più controllo. Valeria Golino e Fabrizio Bentivoglio sono gli Ossola. Lei è una comprimaria e l’unica che dimostra di avere equilibrio, lui è il perfetto omino medio-padano, caricatura sospesa tra il buffo e l’osceno.
E’ di un nichilismo sorridente questa opera malinconica e disillusa di Paolo Virzì. Opera che è abisso nel quale il pubblico guarda, riconoscendosi.
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