Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Bisogna dare atto a Paolo Virzì di aver osato inoltrandosi in territori inconsueti per lui (e per la cinematografia italiana tutta). Col giallo si rischia di sporcarsi, di cadere nel ridicolo o, peggio ancora, nell'anonimato.
Benché l'anima thriller venga inevitabilmente imbrattata (un'esigenza che puzza di "obbligo" visti i precedenti dell'autore) di forti contaminazioni da commedia. Il che, naturalmente, ci sta; ed infatti qualche buon momento felicemente brillante (e ferocemente cattivo) nella cupa tristezza generale da (melo)dramma intelligente c'è, laddove ad esempio la natura sgradevole destrorsa del capitale (in)umano affiora prepotente toccando picchi di alienazione pura (il pensiero, un va' pensiero, corre alla figura interpretata da Bentivoglio belli capelli, sorta d'idiota con paresi facciale da sorriso fasullo d'ordinanza). Il fatto è che risulta incompiuto il passaggio successivo, ossia la "trasfigurazione" in mascher(at)a grottesca, l'unica via percorribile per una rappresentazione realmente (per)turbante, penetrante, che resti impressa come un ago conficcato in un occhio e che non sia solo pertanto una (pur valida) miccia che accenda estemporanee riflessioni indignate tanto sterili quanto fugaci sui giovani d'oggi, sulla crisi dei valori ed economica eccetera.
Perché Virzì s'insozza con la sostanza viscosa viscida e putrefatta che è la società attuale, capace di tradurre ogni problematica in impietose cifre mortificando perciò l'individuo; e lo fa ricordandoci, anche brutalmente, ciò che siamo e di cui siamo - stati e saremo - capaci (ne sono forte emblema i due padri di questo film, in maniera differente tra loro). Insomma, una severa ma anche facile critica/lezione sociale e sociologica che sfrutta gli angoli ombrosi del mystery, che s'insinua tra le pieghe di una narrazione suddivisa strategicamente (opportunamente) in capitoli e punti di vista (senza avrebbe mostrato la sua lineare banale convenzionalità) e che gioca con personaggi-marionette di un gioco perverso.
Orbene, proprio la struttura ad incastro, la circolarità degli eventi e delle prospettive, e la loro inesorabile confluenza in una risoluzione attesa (ma ben intuibile, giusto appena entra in scena quello che si scoprirà poi essere il colpevole del misfatto) - in pratica, il "disegno" dell'intreccio, presentato sottoforma di dramma dei sentimenti e dell'animo in quattro atti - avrebbe avuto bisogno, per coerenza ed organicità, di maggior rigore e cura formale, di una messa in scena elegantemente geometrica e scevra da fasi di stanca (la parte centrale, come pure nelle ripartenze degli ingranaggi narrativi nei capitoli successivi al primo), da provincialismi di sorta, da scene madri (insopportabile l'assortimento di isterie dell'altrimenti sussurrante Bruni Tedeschi, vedasi nell'assurda sequenza in auto quando insulta un'altra persona nel bel mezzo di una rotonda) e da elusioni/forzature di sceneggiatura (non convince l'attaccamento di Serena a Massimiliano, il suo precipitarsi da lui nella notte dell'incidente, se non come strumentale al plot). Ma, come si notava in apertura, si tratta di un primo approdo nel genere (sebbene non puro): difetti perdonabili e comprensibili, nel complesso.
Meno si perdona che il senso dell'opera (e del titolo) sia relegato a margine, più precisamente in fondo, con il palesarsi della didascalie (che precedono i titoli di coda), che, spiegando lo spietato riferimento al "capitale umano" - summa, gelida e agghiacciante, di una vita volgarizzata in somma algebrica -, informano sulle sorti del malcapitato. Di cui nulla viene raccontato - scelta discutibile ma non priva di logica - da buon ultimo della catena alimentare capitalistica e di quella filmica.
Buono il lavoro sugli - e degli - attori (a parte, come detto, Bruni Tedeschi, comunque efficace come maschera triste e smarrita, fuori dal mondo eppure complice): Fabrizio Bentivoglio è una garanzia, lavora di fino su un personaggio di grana grossa che rivela tutta la sua piccolezza; bravi anche Fabrizio Gifuni, che esibisce con naturalezza l'arroganza, la durezza e la crudeltà della finanza, e Valeria Golino, un po' sacrificata in una parte minore. Ottima la resa dei giovani - e non è certo una sorpresa trattandosi di Virzì - tra i quali spicca ed eccelle Matilde Gioli che interpreta Serena, ovvero il centro nevralgico di tutta la vicenda (pedinata, indagata, con la mdp che non le si stacca dal viso: non a caso il capitolo a lei dedicato è il migliore).
Chissà, forse con un altro regista, più abituato con "regole", atmosfere e ambiguità tipiche del noir, avremmo potuto avere un film di ben altra (e alta) levatura. In ogni caso si tratta di un lavoro che, stante l'attuale perdurante stato comatoso nel quale versa la settima arte in Italia, è da difendere sperando costiuisca un passo concreto verso una condizione migliore.
Una brevissima banalissima considerazione, infine, sulle polemiche pre-uscita (e preventive), per una presunta cattiva rappresentazione della realtà brianzola: ridicole, insensate, stupide e stupidamente prevenute. Ed ovviamente - ma vaglielo a spiegare a certi geni - controproducenti. Un "capitale umano" prossimo allo zero.
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