Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Una matrioska. Ma anche un mosaico. Oppure come il cubo di Rubik. La costruzione narrativa del nuovo film di Paolo Virzì è così perfetta. E’ chiaro, quindi, il motivo per cui Il capitale umano è uno dei migliori film di un regista sempre attento al racconto dell’Italietta. A tal proposito, Tutti i santi giorni (2012), oggi, si fa premessa per le stesse storie, quotidiane, anch’esse italianissime, fra quelle di chi lotta contro una quotidianità greve, per l’ascesa/discesa sociale, ma anche di chi deve fare i conti con il sogno di una vita diversa e pur tuttavia sempre più sterile, nonostante la ricchezza. E allora, resta solo la scelta, quella più convincente, di chi avverte il desiderio di un amore vero, quello della ragazza oppressa dalle ambizioni del padre, rispetto a tutte le vite che Virzì prende in prestito dall’omonimo romanzo dello statunitense Stephen Amidon. A infarcire di genere il film c’è anche un misterioso incidente, in una notte gelida, accaduto durante la vigilia delle feste di Natale.
Un film corale, dall’umorismo nero, in cui miseria e nobiltà vanno a braccetto con la provincialità. Quella tipica e reale della Brianza. A fare da collante, ai vari tasselli del mosaico, il tempo, che inesorabilmente srotola tutte le vite davanti ad ognuno, rendendo consapevole ciascuno dei propri costanti ritardi con la vita e di come la prima cosa bella, a prescindere dalle ambizioni o dalle miserie, sia quella della dimestichezza con le proprie responsabilità: quelle di un padre nei confronti dei figli, ma anche quella dei figli nei confronti di padri e madri, sottomessi alla loro stessa adolescenziale apatia, pur di sentirsi appagati da un apparente benessere. Perché “la gente è stanca perché non vuol vedere le cose che danno il mal di testa”. Così tutti i santi giorni.
Tutti i personaggi di Il capitale umano vivono il proprio dramma personale, liquidando sugli altri le conseguenze delle proprie scelte scellerate. A pagare non sono mai i diretti responsabili ma solo gli ultimi, quelli che nella scala sociale sono i miserabili, i poveri di spirito, più che di altro. Sono loro il capitale umano reale. Mentre quegli altri, sono additati come quelli che “hanno scommesso sulla rovina di questo paese”. E il guaio peggiore è che hanno vinto. In ogni luogo e in diversi ambiti di “questo paese”. Per cui, il quadro generale che ne esce fuori é triste. Ma assolutamente vero.
Si tratta di un paese in cui la sopravvivenza è concessa dalle case e dalle bare (“quelle non possono mai mancare”) a differenza di quello che realmente rende monca l’Italia, privata anche dei luoghi destinati all’arte, e piuttosto deputati ad ospitare supermercati o appartamenti. E’ con questi che si mangia. Ne va di conseguenza che non esiste più, allora, alcuna differenza fra i dilettanti, i gretti e gli attori, da distinguersi fra quelli che ogni giorno cercano di indossarla davvero quella maschera che li rende quell’uno, ma poi nessuno, e agli occhi di tanti, centomila personalità: dal padre che da titolare di un’agenzia immobiliare é pronto a giocarsi anche quello che non ha, pur di entrare nella grande famiglia dei magnati, al vero magnate, perfetto prodotto dell’italiano nutritosi del latte paterno di un falso statista, che in quanto tale ha costruito un impero economico alle spalle di chi ha perso anche la propria dignità. Fra questi uomini anche le donne, alle prese con i loro sogni, fra maternità tardive e sogni che rimangono nel cassetto, come può diventarlo quello per il teatro. Tutti dalla vista obnubilata dall’avidità. Quel che rimane, sono i figli. Il risultato di questi uomini e donne, il prodotto di una tragedia che continuamente vediamo consumarsi sotto i nostri occhi.
Per tutto ciò il film di Virzì convince. Ma non chiamiamolo capolavoro, aggettivazione che resta confinata solo alla struttura narrativa del film. Poiché la storia, le storie, che rendono il viaggio, politico, sociale e culturale nell’Italia presente, non hanno nulla di originale, se non le location, il Conneticut del romanzo originale che diventa la Brianza, anche per merito di due grandi sceneggiatori come Francesco Piccolo e Francesco Bruni.
Il cast è eccellente e composto, sebbene qualcuno troppo sopra le righe (Fabrizio Bentivoglio) sia abbastanza compensato dal minimalismo (Fabrizio Gifuni), dalla sovrabbondanza (Valeria Golino) e dalla sottrazione (Valeria Bruni Tedeschi), che rendono tutti tipi, non più della commedia ‘alla virzì’, ma di una tragedia all’italiana.
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