Regia di Attila Janisch vedi scheda film
MÁSNAP
Presentato in anteprima italiana alla 16° edizione di Trieste Film Festival, Másnap (Dopo ieri), del regista ungherese Attila Janisch (quasi un habitué del festival), c'è parso uno dei più originali fra i lungometraggi in concorso.
Prende, infatti, le distanze dalle tematiche sociali che più frequentemente sono state affrontate dai registi presenti alla manifestazione curata da Alpe Adria Cinema, rivolte soprattutto al rapporto che intercorre fra i paesi dell’Europa centro orientale e l’occidente.
Film che intriga, disorienta, allontana da un centro, da ogni soluzione, Másnap ritorna continuamente su se stesso rivisitando luoghi, persone e avvenimenti attraverso un flusso d’immagini che annulla ogni idea del tempo. Di quello che è accaduto dopo ieri il protagonista sembra avere perso ogni controllo, ogni capacità di verifica, ogni riscontro reale.
Un uomo, seduto nel retro di un camion, attraversa la campagna ungherese. L’autista gli dà appuntamento, per il ritorno, alle 16,30 e gli lascia una bicicletta dotata di motore, un mosquito, perché possa muoversi più agevolmente. Alla ricerca di una fattoria, ricevuta in eredità, egli troverà sulla sua strada alcuni personaggi di cui non solo le parole e le azioni, ma perfino l’essenza stessa sono messe continuamente in dubbio da un’immaginazione che sembra alterare la percezione sensoriale, con frequenti rimandi a dissociazioni fra sogni ad occhi aperti e incubi realmente sognati.
L’uomo rivede e ripensa continuamente se stesso all’interno di un labirinto in cui si aggira, non rinvenendo mai quello che cerca, ritrovandosi negli stessi luoghi e rivedendo le stesse persone, forse chiedendosi se stia avvicinandosi a qualcosa di preciso, alla verità relativa a quanto ha creduto di avere udito e visto.
Quest’atmosfera di sospensione prende immediatamente lo spettatore che può non essere in grado di orientare la sua valutazione critica verso ciò di oggettivo che il regista vuole rappresentare.
Solo la scelta delle musiche (in buona parte composte dall’estone Arvo Pärt) c’indirizza sul versante metafisico, sul misticismo, sulla sensazione di stare assistendo alla rappresentazione dell’Uomo che brancola nel buio del peccato, delle sue tentazioni e delle angosce che l’impossibilità di una sua inequivocabile identificazione comportano all’umanità.
Il film, lentissimo, porta in sé l’aspettativa di qualcosa che debba accadere, ma anche la sensazione di un’eternità con la quale l’uomo stia già facendo i conti per delineare i confini del proprio destino. Ci addentriamo in un mondo che risente sia delle tensioni dei gialli di Hitchcock, sia del senso di mistero dei drammi di Bergman, mentre il tessuto letterario connettivo sembra essere quello che anima i racconti di Franz Kafka.
Il paesaggio, la campagna ungherese nella quale il protagonista si perde, rappresenta lo smarrimento dell’anima; la fattoria che egli cerca potrebbe stare ad indicare il peccato originale: nessuna delle persone con cui entra in contatto la conosce o l’ha mai vista, nessuno cioè riconosce, si rende conto di che cosa sia il peccato originale.
I resti delle teste d'agnello nascosti nelle lordure, nelle sporcizie e nelle miserie di ogni tipo, sono anch’esse un segnale che spinge all’immagine del peccato e di una vittima sacrificale che lo possa redimere.
Il protagonista stesso potrebbe simboleggiare quella colpa primigenia: ha qualcosa di famigliare per buona parte di quelli che incontra, i quali hanno l’impressione di averlo già conosciuto, anche se non lo identificano espressamente.
C’è una continua rivisitazione dei luoghi e dei personaggi proprio alla ricerca di un riconoscimento del peccato: si torna sul luogo di un delitto come in un thriller, solo che il delitto non è certo; è solo temuto, desiderato, voluto, pensato, sognato o si realizza realmente? Oppure si pecca già col solo desiderare il male? Se questo male si compie, l’autore ne è consapevole e, quindi, responsabile?
Queste angosciose domande si possono solo leggere e interpretare nel volto smarrito del protagonista, che ha fornito un’interpretazione molto intensa e che ci ha ricordato il Dirk Bogarde di Morte a Venezia: egli non sa mai quello che gli accade, se quello che gli accade avviene veramente, se le persone che vede le vede nel sogno, se i sogni sono sogni o viaggi introspettivi; una discesa all’interno del nucleo di un incubo che il regista ci obbliga a fare con lui. Un gioco di scatole cinesi, in cui ci s’interroga di continuo su quello che ci aspetta dietro una porta, su ciò che troveremo all’interno di una cassapanca, su che cosa vedremo fra i canneti di un macero. Un orologio che si ferma diventa così l’incapacità di andare oltre nel processo di comprensione che si arresta, ma anche l’impossibilità del ritorno in una perdita d'orientamento e del controllo di ogni coordinata temporale. Pertanto l’abboccamento alle 16.30 col camionista avviene sul serio o è solo il sogno di un’ansia che si rincorre? La ragazza che viene uccisa è una reale vittima sacrificale o niente altro che l’espressione del senso di colpa che lacera l’anima del protagonista?
Il pathos è ottenuto con la massima lentezza delle immagini, quasi che il regista voglia ammonirci che non abbiamo scampo nel doverci scrutare all’interno di un processo di agnizione; i primi piani che scorrono adagio e si perdono nella calura della campagna che li circonda, sembrano quasi sottolineare una inevitabile necessità e sono solo talvolta rotti da corse in affanno con cui il protagonista cerca un’immediata e tranquillizzante risposta alle proprie angosce.
Il film è pervaso dalla sensazione d'attesa. Di che cosa? Di un chiarimento, di una liberazione, di qualcosa che debba succedere, di una palingenesi forse: questa atmosfera è resa con immagini dense accompagnate da un silenzio che impone la concentrazione. Gli sguardi torvi, visi di fantasmi che visitano all’improvviso la realtà del protagonista con istanze contraddittorie, sono anch’essi inquietanti testimonianze dell’inestricabilità del senso del peccato, della sua doppiezza.
Può sembrare un paradosso affermare che siamo piacevolmente dispiaciuti che il film, già vincitore dell’ultima edizione della Settimana del Cinema Ungherese di Budapest, non abbia ricevuto alcun riconoscimento al festival di Trieste: ma, al di là delle preferenze personali, ciò rappresenta una solida garanzia dell’alto livello qualitativo delle opere presentate in concorso.
Enzo Vignoli,
9 febbraio 2005.
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