Regia di Bruce Beresford vedi scheda film
Ci sono film a cui ci si affeziona più per l’argomento trattato che per l’effettiva qualità o innovazione stilistica. È il caso di A spasso con Daisy. Grazie ad un’insegnante che alle scuole medie si cimentava nel proiettare in lingua inglese, e commentare, dei film che avessero anche uno scopo pedagogico, ecco come più di 20 anni ho visto per la prima volta questo film. A distanza di tanto tempo si ha l’impressione di vedere un film più improntato ad una delicatezza della Hollywood degli anni ’60, quando si muovevano i primi passi verso una presa di coscienza più realistica nei confronti dei diritti civili e delle discrimanazioni razziali. Partiamo dunque dal presupposto per cui il regista si tiene lontano dai toni tetri o violenti delle produzioni dell’epoca: siamo infatti sul finire degli anni ’80 e già il tema del razzismo era stato affrontato con toni ben più realistici con pellicole quali Il colore viola o Mississipi Burning- Le radici dell’odio. Beresford dunque tenta invece un’altra strada, immergendoci in una vicenda privata, ma seminando per l’intera trama dei segnali o dei dialoghi che comunque tengono desta l’attenzione sul tema. Già alla sua uscita, sebbene salutato con ben 4 premi Oscar, tra cui quello per il miglior film, alcuni critici espressero delle perplessità proprio su un gusto ed un approccio retrò alla vicenda. Nonostante questo il regista sembra non avere l’intenzione di fare un film “militante”, quanto di abbracciare una storia estremamente intima e commovente, lasciando sullo sfondo uno scenario molto complesso e duro. Difatti assistiamo a circa 25 anni di cambiamenti (o di staticità) tra il 1948 ed il 1973 nello stato della Georgia attraverso gli occhi di due protagonisti, l’autista di colore Hoke Colburn (Morgan Freeman) e la benestante e tenace Miss Daisy Wertham (Jessica Tandy), di origine ebrea. Le schermaglie iniziali tra Miss Daisy, 72enne, che, dopo l’ennesimo incidente d’auto, si vede imporre dal bonario figlio Boolie (il bravissimo Dan Aykroyd) la presenza dell’autista e che lei interpreta quale riduzione drastica della propria indipendenza. In un susseguirsi di schermaglie, che diventano via via più affettuose, vediamo anche delle barriere di pregiudizio man mano sgretolarsi tra autista e datrice di lavoro, sino ad una vera consapevolezza dell’essere divenuti amici e pressochè indispensabili l’uno per l’altra. Sono ben tratteggiate delle caratteristiche nel rapporto tra i protagonisti, che di fatto rispecchiano le distinzioni di classe e di razza che ancora troneggiavano nella vita quotidiana. Da notare un elemento: entrambi i protagonisti appartengono a delle minoranze (Hoke è nero e Miss Daisy è ebrea), ma che comunque tra loro hanno una rigida gerarchia. Notiamo infatti che Hoke e la domestica di colore Idella devono mangiare nella cucina di casa cibi di qualità effimera, mentre Miss Daisy consuma i suoi pasti da sola in sala da pranzo, apprendiamo che Hoke ha condotto una vita molto povera ed è analfabeta, sarà quindi Miss Daisy a preoccuparsi affinchè impari a leggere. Viene rimarcato in più punti come sostanzialmente la vita dei domestici neri li porti ad essere in ogni caso esclusi dal contesto propri datori di lavoro: alle feste e ricorrenze di famiglia Hoke è escluso (commovente il natale che Hoke dovrà passare in macchina mentre Miss Daisy sarà a cena dal figlio e dalla nuora) altrettanto emblematica la decisione di Hoke di disobbedire a Miss Daisy fermandosi a bordo strada per andare in bagno durante un viaggio perché alle persone di colore non è consentito usare le toilette delle stazioni di servizio. Inquietante l’incontro con due poliziotti, in cui entrambi i protagonisti sono sostanzialmente consapevoli di essere alla mercè delle autorità perché il colore della pelle o il loro nome è osservato con ironia e disprezzo. Al contempo, vediamo come la società si evolve anche in positivo: nelle ultime sequenze Hoke fa sapere che sua nipote ha ormai un incarico universitario, segno che ormai alle persone di colore non è solo riservato un avvenire nelle attività più umili. Di gran classe il finale che vede, sotto un meraviglioso makeup (premiato con l’Oscar), una Miss Daisy ormai 97enne che in un raro momento di lucidità apprezza di nuovo la compagnia di Hoke. Il film ha anche galvanizzato la carriera dell’allora 80enne Jessica Tandy, che personalmente ricordavo solo nel ruolo della dispotica madre del protagonista de Gli uccelli di Hitchock. In un ruolo che le ha fatto ottenere l’Oscar alla miglior attrice protagonista, in effetti reisce a definire un personaggio inizialmente arcigno e ricco di pregiudizi che tuttavia, di fronte all’onestà ed alla bontà d’animo di Hoke dovrà ricredersi. Un po’ sopra le righe in alcune sequenze Morgan Freeman, è comunque eccellente nella sua parte, anche se devo elogiare di nuovo il ruolo del placido Boolie, interpretato da Dan Aykroyd, candidato anch’egli all’Oscar. Detto questo probabilmente non si tratta di un capolavoro ma rimane un ottimo film realizzato appunto con una delicatezza inusitata in tempi recenti.
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