Regia di Mira Fornay vedi scheda film
La durezza non è fatta solo di crudo realismo. La sua essenza, a volte, è uno spettro sfumato, spoglio, esangue. È un po’ come questa storia, che si racconta con il fare titubante e fintamente assorto di chi non crede fino in fondo a ciò che gli accade intorno. Il mondo, per Marek, è una sorta di triste mistero. Quello in cui giace, sprofondato, il senso della solitudine, dell’egoismo, della disgregazione, dell’impossibilità di stare semplicemente insieme, nel reciproco rispetto. A quel muro di incomprensione il ragazzo reagisce aderendo ad un gioco rabbioso e violento, che lo vede nei ruoli di pugile, di affiliato ad un gruppo di skinhead, di padrone di un cane addestrato all’aggressività. È il suo modo per partecipare, da svogliato protagonista, ad una recita in cui tutto deve risultare brutto e cattivo, dagli pneumatici dati alle fiamme tra i filari di vite alla madre che lo ha abbandonato da piccolo per fuggire con il suo amante gitano. Marek vuole esserci, ma fa una grande fatica a reggere il ritmo. Il padre, che ha problemi di soldi e di alcol, lo vorrebbe come suo fedele servitore, gli amici lo richiamano alla sua missione improntata all’odio razziale, sua madre gli rammenta in continuazione il suo rango di figlio indesiderato. Il ragazzo è debole e ha l’animo tenero, e per questo motivo preferirebbe starsene muto in disparte. La sua sofferenza è prodotta dal rimbombo delle ingiustizie che, per disperazione, cercano di trovare sfogo in una qualsiasi forma di vendetta, non importa contro chi o contro cosa. Il film di Mira Fornay non va a scavare nelle radici del problema. Si ferma alla turbolenta superficie di una realtà disorientata e priva di obiettivi, che sa (o crede di sapere) solamente ciò che non vuole, sia pur senza conoscerne il vero motivo. La Slovacchia dei giorni nostri è una terra di nessuno abitata da uomini e donne in fuga da un passato di cui si è persa la memoria. La si può attraversare solo da vagabondi, suonando il violino mentre si chiede la carità, o seminando il terrore con il cranio rasato. L’aria che si respira è vecchia e pesante, per quanto assetata di modernità. E la vita, per tutti, si riduce ad un affanno incolore, grigio come l’atmosfera di un racconto in cui la luce è fredda e fioca, e basta appena per intravvedere le divisioni e le differenze che impediscono di costruirsi un’identità familiare o nazionale, e di guardare al di là delle difficoltà del presente. Il passo è stanco ed arrancante, ma conduce diritto verso il precipizio. Neanche Marek, pur nella sua benigna indolenza, riesce a sottrarsi a quel mortale risucchio. Il quadro si sfalda sotto la pressione di un nichilismo bagnato di lacrime annose, di antichi rancori che si sono rigenerati in pregiudizi sociali e che frenano il progresso. Le nuove generazioni hanno ereditato soprattutto la libertà di non volersi bene, di badare ognuno ai fatti propri e al proprio tornaconto, dimenticandosi di abitare in una casa comune. My Dog Killer lancia un messaggio di desolato pessimismo. E lo articola in un registro giustamente sobrio, ma forse eccessivamente neutro ed elusivo.
Questo film ha rappresentato la Slovacchia agli Academy Awards 2014.
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