Regia di Guido van Driel vedi scheda film
Il cinema cattivo si ferma a riflettere. Il politicamente scorretto non è, del resto, un riflesso automatico. Può essere anch’esso oggetto di meditazione. Questo film ci pensa un attimo su, e quindi esita. A volte decide di andare comunque avanti, ma poi subito si pente. Forse, per la nouvelle vague fiamminga, è davvero giunto il momento di fare un passo indietro. Non si tratta di compiere un gesto di viltà: si può ancora parlare con un linguaggio forte, che non nasconde i lati più truculenti della nostra realtà contemporanea. Tuttavia si può tentare di mostrare una maggiore consapevolezza che l’orrore è sempre male, e non è mai inevitabile. E concludere che da esso è possibile prendere le distanze, sul piano morale ed estetico. Non è indispensabile, per derattizzare un edificio, dare fuoco ad un topo vivo. E le barbarie commesse nelle guerre civili africane possono sopravvivere nella sola dimensione dell’incubo notturno e della velata allusione, senza pretendere di occupare tutta la scena. In questa storia dall’indole tragica si avverte una grande voglia di ritorno alla normalità, intesa come atteggiamento pacifico, che respinge la violenza gratuita, e riesce persino a guardare lontano. La terra, in Frisia, è così piatta che sembra tutt’uno con la superficie del mare. È facile immaginare che le sue strade conducano dritte verso l’infinito. La vista appare illimitata, come le possibilità di cambiare e reinventarsi la vita, magari per effetto di un miracolo davvero inatteso. Può capitare che a risorgere dalla morte sia un malfattore della peggior specie, un uomo sadico e senza scrupoli: un vero bastardo, un assassino che per la gente meriterebbe davvero di fare la stessa fine delle sue vittime. Eppure, anche per lui, si compie la massima manifestazione della salvezza. La redenzione, però, non è il tema centrale del racconto: è solo l’epilogo che, presentato nell’antefatto, spiega l’atteggiamento trattenuto con cui nel seguito viene presentata l’espressione del cinismo, non più sfrontata ed incondizionata, perché costantemente soggetta al confronto con la parte fragile della realtà: quella abitata dalle persone innocenti e deboli, che sono tali per natura, come i bambini e gli animali, o perché sono state profondamente ferite, come gli immigrati poveri, i profughi di guerra, i reduci da sanguinose persecuzioni. Per una volta, la provocazione investe l’intera dimensione umana: i suoi risvolti più neri vengono messi in evidenza dal contrasto con i suoi aspetti luminosi, in cui si riflette il dolore, piccolo o grande che sia: quello provato per un gatto che sta male, o quello di due genitori la cui figlia è stata uccisa brutalmente, e per di più senza motivo. Il confronto, in questo caso, non produce stridore, ma solo un imbarazzante gioco di chiaroscuri, che racchiude tutta la difficoltà a capire le contraddizioni del mondo: un mondo sballato in cui tutto può diventare assurdamente crudele, per poi smontarsi miseramente al primo contatto con il dubbio.
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