Regia di Guido Lombardi (II) vedi scheda film
Prendi 5 uomini, un po’ poveri cristi, un po’ rifiuti della società, che fanno un po’ compassione e un poco spavento e pure un tantino ribrezzo.
Prendi questi 5 uomini, 5 tipologie di derelitta umanità e mettile insieme per realizzare il classico colpo gobbo che ti cambia la vita.
Simile ad una partitura jazz, con un motivo forte alla base e tutto il resto improvvisazione.
L’importante, però, è che l’improvvisazione non esca dal tracciato segnato, che le digressioni non finiscano per perdersi in un grumo confuso di note e di suoni inconciliabili con il tema portante, che gli strumenti, per quanto solisti, suonino tutti e sempre la stessa musica, senza mai troppo distanziarsi, senza mai prevaricare gli uni sugli altri.
Gioco di squadra ma condotto a grandi linee, lontano dall’analisi scientifica dei dettagli che fa di una comune rapina la rapina del secolo.
Ci troviamo di fronte a una cosa buttata lì, alla napoletana -a pane e peperoni, recita il dialetto-, o il piano è più articolato di quanto sembra?
La criminalità che trasuda Take Five è quella che si respira nelle strade dei quartieri popolari napoletani, quella che ne attraversa il vissuto quotidiano; è il tessuto connettivo della città stessa, quella che c’è sempre stata e mai cesserà di esistere, perché è tramandata come una tara di famiglia da padre in figlio, da zio a nipote, dal vecchio navigato e indurito al giovane ingenuo ed inesperto.
La mala vita è quella dei boss di quartiere che resistono ed esistono finché restano circoscritti nel loro territorio.
A cui si deve necessariamente dare conto una volta che si entra a far parte del giro, e quando dal giro si è usciti o si crede di esserne usciti, o anche quando quel giro si finisce solo per sfiorarlo pericolosamente.
Ma alla fine il marcio ti viene a cercare, ti trova e ti inghiotte.
Una strada senza ritorno. Senza redenzione.
Se non per pochi, pochissimi eletti.
L’opera seconda di Guido Lombardi ha assimilato la lezione del primo Tarantino, ma anche masticato il cinema di genere degli italianissimi anni’ 70 e del Sergio Leone dei suoi inarrivabili spaghetti western.
Grande attenzione ai personaggi, anima del film, magnificamente caratterizzati, magnificamente interpretati.
Su tutti la prova maiuscola di un camaleontico Peppe Lanzetta, senza il quale Take Five difficilmente avrebbe raggiunto quei vertici di viscerale intensità e schietta autenticità che invece possiede, resi ancora più vivi e vividi dalla scelta di utilizzare per tutto il tempo la parlata dialettale (sottotitolata in un italiano che non rende -non può farlo- il senso preciso di parole ed espressioni intraducibili), e farlo in modo eccelso, così da non mortificarla.
Che invoglia il religioso silenzio per assaporarne suoni, toni e sfumature.
Sono la cosa migliore del film, insieme alla scelta di un commento musicale in note, lontano richiamo in salsa jazz al Morricone ‘di frontiera’, capace di fondersi con l’accurato lavoro di direzione dove a prevalere sono fluidi e avvolgenti movimenti di macchina da rapire lo sguardo.
Musica e immagini agiscono in perfetta sintonia, arrivando a restituire l’idea di un desolato far west metropolitano duro nudo e crudo fatto di cinici spietati antieroi, che arrivati al punto di non ritorno scelgono di andare avanti, di accelerare la loro folle disperata corsa verso l’autodistruzione totale e definitiva.
Il futuro?
Una rosea promessa (che ha la consistenza di un miracolo) o solo l’ennesimo sogno infranto.
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