Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film
Del buon Eraclito, i giovani e vecchi uomini politici francesi a Quai d'Orsay, hanno saputo cogliere solo il significato più superficiale del panta rhei. Forse, convinti che tutto dovesse scorrere, si sono messi a correre. Il risultato è una satira spontanea che viene fuori dal quotidiano, dai piccoli assurdi ammiccamenti, dalle scartoffie che ogni giorno affollano gli uffici, dal canto loro straordinari vani di antiche regge o palazzi nobiliari riempiti di scemenze e di grottesche macchiette.
Tavernier riadatta la commedia di Billy Wilder, scansa a fatica la tentazione del racconto di formazione leggero alla Devil Wears Prada (per carità, dignitosissimo film di genere non d'autore, quello), e sterza quasi verso un film postmoderno, travestito da commedia arguta. Postmoderno perché rischia e riesce nel raccontare il nulla, in quanto a contenuti. Le apparenti lacune di sceneggiatura sono volutamente zeppe di riempitivi, di situazioni che si ripetono (ma che non stancano), di gag che si facciano significanti di un mondo del tutto nonsense, senza costrutti e senza cervello, in cui la forma governa (dice la Curatrice degli Affari Africani, che tiene a precisare che è bene vestire in maniera accurata in quei luoghi così alti e importanti). Quai d'Orsay è una giostra funambolica di personaggi che fanno avanti e indietro, azzera i tempi morti e quintuplica le ellissi, fino a consegnare l'esperienza di un ritmo serrato di vita e di lavoro, che a momenti siamo dalle parti dei broker scorsesiani lupi di Wall Street.
Il poliedrico regista di Coup de torchon imbastisce la sua graffiante narrazione con l'intento che ne venga fuori, immediatamente, un quadro felicemente sconsolante delle più alte cariche dello stato francese (sottintese, mondiali). Tutti gli affari di politica estera, immaginati su paesi stranieri inesistenti, i cui nomi scimmiottano quelli dei reali paesi del Medio Oriente o del Centro d'Africa, sono pillole di trama che poco hanno a che fare con l'esperimento del regista. Lo script è scritto, scrittissimo, sempre d'effetto, ma è questo che Taillard vuole da quelli che lo circondano: movimento, movimento (cinema!/?), come quando leggi Tintin e ti viene subito voglia di finire quella pagina per sfogliarla e passare oltre. Il discorso che il giovane Arthur deve costruire per il discorso da fare al Consiglio di Sicurezza dell'ONU deve rielaborare i luoghi comuni e allo stesso tempo evitarli, deve riportare le citazioni ma non lasciarsi andare in eccessivi lirismi, deve essere sempre il contrario di quello che gli è stato chiesto e ordinato, perché gli esseri umani del mondo intorno all'Eliseo sembrano capaci di collaborare come potrebbero esserlo animali quiescienti e poco intelligenti. Sul punto di esplodere, magari, come il magico Niels Arestrup - il suo personaggio è il più bello - o interessati a comprendere come funziona quel mondo - Arthur - fino ad assumerne i tratti più fondamentali e più assurdi, così come magari più distanti e capaci di vedere tutto con più freddezza (Anais Demoustier).
E' quando Taillard parla di Tintin che Tavernier lancia l'esca che faccia capire il vero scopo del suo film: il montaggio diventa ancora più frenetico, va al ritmo, si mantiene in sincrono, sfugge le prolissità. Sembra di essere di nuovo all'ultimo piano degli uffici della Coca Cola di One, Two, Three [1961], solo stavolta con obbiettivi più facili, forse più convenzionali, e con un linguaggio un po' più greve, ma comunque di classe, attento, capace di tirare in ballo niente poco di meno che la possibilità dell'inutile narrativo, in addirittura 114 minuti, pur di raggiungere pura, folle, forma. Frenetico e pazzo, Quai d'Orsay è un film da non perdere, probabilmente più agguerrito e pungente da un punto di vista puramente cinematografico che politico, ma ben venga.
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