Regia di Rolf Thiele vedi scheda film
Sempre di più ai giorni nostri dobbiamo fare i conti con un cinema invisibile (o meglio reso tale dalle imperscrutabili leggi “economiche” di mercato) che ovviamente e purtroppo riguarda una fetta sempre più vasta e in espansione di ciò che non è (o non è ritenuto a sufficienza) strettamente commerciale, inteso come redditizio in termini di ritorno, magari anche per una semplice uscita in Dvd. Il problema, che investe proprio il tipo di pellicole che più mi sta a cuore, è gravissimo e – temo – irreversibile (dovrò dunque mio malgrado imparare ad usare il mulo se voglio rimanere “aggiornato” e non perdere conoscenze importanti che riguardano soprattutto le cinematografie “emergenti”).
A fianco di queste inaccettabili omissioni, c’è pero anche un segmento di cinema magari una volta considerato importante che ha goduto persino di un considerevole successo non solo di critica, ma anche di mercato, che nel frattempo si è perso nel “nulla” e che imperscrutabili ragioni (per noi comuni mortali) anche di carattere burocratico (copyright; reperibilità e conservazione, ecc.), hanno reso ugualmente “inaccessibile alla visione”.
E’ il caso de La ragazza Rosemarie, interessante pellicola di Rolf Thiele (certamente il miglior risultato di un percorso non precisamente eclatante di questo regista che alla distanza si è dimostrato molto meno interessante di quanto le premesse – il film in oggetto – potevano far immaginare) che al momento della sua uscita in sala, riscosse una vasta eco di consensi e persino un’estesa risonanza mediatica. Ebbe anche il merito di “lanciare” sul mercato, dandole un periodo di effimera notorietà, una avvenente attrice, Nadja Tiller, già miss Austria del 1949, che grazie a questa sua bella prova, fu avviata a una non lunghissima carriera internazionale che le valse comunque negli anni ’60 alcuni ruoli di rilievo sempre circoscritti però in quelli di vamp che sembravano esserle particolarmente congeniali.
E’ dunque singolare che poi sul film sia caduta una pesante coltre di “silenzio” e di emarginazione. Si potrebbe dire che per lo meno qui in Italia, con il passare degli anni se ne sono perse (definitivamente?) le tracce, ed è un vero peccato che ciò sia avvenuto, visto che si tratta di una pellicola che ha stile e qualità superiori alla media, poiché al di là del tema trattato, è sorretta da una intelligente forma di “costruzione” intrigante e grottesca, che credo la potrebbe rendere anche ai giorni nostri insolitamente “appetitosa”.
Individuare e riconoscere le origini de La ragazza Rosemarie, non è difficile, poiché le fonti di riferimento di Thiele sono quelle dell’espressionismo tedesco. Altrettanto chiari risultano anche i risultati che il regista ha inteso raggiungere attraverso un ragionato utilizzo di una modalità di rappresentazione che si richiama a Brecht e alle sue teoriche (utilizzare l’arte della messa in scena, qui al servizio di una storia ispirata alle cronache giornalistiche riguardanti fatti realmente accaduti e raccontati in forma drammatica in un romanzo di Eric Kurby, autore anche della sceneggiatura del film insieme allo stesso regista, per provocare un “giudizio consapevolmente critico” e soprattutto “distanziato” nello spettatore attraverso quella particolare forma definita di “straniamento” che ricorre spesso al “grottesco” e che si serve anche di “siparietti” corali che esprimono il “commento” esterno utile alla riflessione, attraverso caustiche ballate stigmatizzanti). Quel particolare modo insomma di impegnarsi nella realtà per essere in grado e in diritto di produrre immagini efficaci proprio della realtà della quale ci si sta occupando, che può essere sintetizzato anche nel concetto di “divertire ragionandoci sopra”, e che qui è molto utile per non farci perdere di vista per esempio la particolare (im)moralità dell’epoca in cui sono ambientati i fatti (e quella degli anni della Germania post bellica per putridume e compromissioni anche politiche, corrisponde a un periodo particolarmente nefasto e nauseabondo che a guardar bene, non si discosta poi tanto nemmeno dalla nostra attualità odierna che è forse semmai molto più marcia e “stomachevole” - e parlo ovviamente dell’italietta della contemporaneità alla quale però purtroppo manca un altrettanto “feroce” fustigatore dei costumi che sia capace di incidere con altrettanto vigore “consapevole” per metterne alla berlina intrallazzi e trame).
L’impietosa esposizione della corruzione non soltanto morale della Germania del dopoguerra è magistralmente evidenziata e risulta perfettamente percepibile. Il tema non era ovviamente del tutto nuovo (risultava semmai innovativo lo stile espositivo del racconto) visto che era già stato oggetto un decennio prima dello straordinario, persino apocalittico nelle sue tragiche conclusioni, Rossellini di Germania anno zero, ma anche, sia pure in misura più ridotta, e soprattutto con un ottimismo maggiore nell’epilogo, di Ballata berlinese di Stemmle del 1948 (appassionato apologo della - e sulla - sopravvivenza umana di un popolo che doveva fare i conti per tentare di “ricostruirsi” davvero non solo materialmente ma anche nella coscienza, con una tragedia totale come quella del nazismo). Proprio a quest’ultimo titolo, fu spesso accostata la pellicola di Thiele dalla critica dell’epoca, nell’intento di voler quasi ridefinire la nascita di una vera e propria nuova corrente classificabile come “neoespressionismo”. Ma era possibile davvero di fronte a questi limitati ed isolati exploit (fra le due pellicole intercorrono circa 10 anni) indubbiamente zeppi di richiami tangibilmente espressionisti (per forma e pensiero in quel loro essere preveggenti e voler “mettere in guardia” da possibili ritorni in agguato, diversi ma non certo migliori) parlare di una organica ripresa (anziché di isolati “epigoni”) di quella straordinaria corrente prebellica che tanta influenza aveva avuto sul costume e sulle arti? Io credo proprio di no (e il tempo mi ha dato ragione, poiché sono stati casi troppo circoscritti per riuscire a fare davvero tendenza) e anche gli uomini (i registi, gli sceneggiatori) di questa nuova ipotetica ondata, non possedevano né il talento né la tenuta dei loro predecessori, e non avrebbero di conseguenza avuto le capacità necessarie per incidere con analoga forza (Fassbinder sarebbe arrivato molti anni dopo).
Resta l’inusuale, positiva importanza di una “denuncia” che non fa davvero sconti a nessuno nel suo rimestare per fare luce con l’intelligente pretesto “scandalistico” degli avvenimenti, nel mondo spietato e inquinato dell’alta finanza degli anni della ricostruzione (e ogni ricostruzione, come mostra anche la cronaca odierna, porta con sé impressionanti, squallidi propaggini di corruzione “condivisa” che svela inquietanti legami anche “politici”).
La vicenda, come si è detto, era realmente accaduta, e anche la vera Rosemarie, come quella del film era stata fatta fuori in maniera cruenta per tentare di non far venire a galla il marciume che si celava dietro all’utilizzo impudico della sua persona, anche se poi la cosa si era dimostrata un vero e proprio boomerang (mi scuso per lo spoiler, ma qui era inevitabile, anche perché poi, pur trattandosi dell’elemento ”drammaturgico” centrale – e parlo della sorte toccata alla ragazza - non è certo nella trama gialla della vicenda dove tutto è “chiaro” da subito che risiede l’interesse precipuo dell’opera, che intende parlare ovviamente di ben altro).
Assimilata la lezione dell’espressionismo, il regista la applica dunque suggestivamente, aggiornandola ai tempi, a una storia tratta dalla cronaca scandalistica del suo paese che molto scalpore aveva suscitato fino a mettere in crisi il mito della Germania del miracolo di Adenauer, in anni in cui evidentemente si riusciva ancora ad indignarsi e a prendere posizioni “giudicanti” anziché “accettare con rassegnata acquiescenza” ogni nefandezza del potere come sembra accadere adesso, visto che fatti molto più gravi di corruzione, vengono al massimo considerati dai più come una ineluttabile conseguenza, o peggio, come un accettabile e perdonabile “danno collaterale”.
L’insolito viaggio nella borghesia “malata” del periodo, consente a Thiele di esaminare con estrema lucidità i risvolti storici, politici e sociali che ne connotano il degrado, aiutato in questo da una straordinaria sceneggiatura che tradisce proprio le origini giornalistiche del suo principale autore.
Che al di là della gradevolezza dello spettacolo esistesse una densa “struttura” politica in questo apologo con ballate alla Brecht a fare da coro alla vicenda, lo dimostra l’interesse che gli fu riservato dai recensori nostrani di formazione marxista. Forzando forse un po’ troppo la mano, si arrivò persino” generosamente” ad ipotizzare (se non erro proprio su Cinema Nuovo, attraverso il suo direttore Guido Aristarco) che in certo senso questa pellicola poteva aspirare a diventare a sua volta una piccola Opera da tre soldi ambientata nel nuovo universo aggiornato degli anni ’50, con al posto dei “mendicanti” e del loro sfruttamento programmatico, il sottoproletariato della Germania che tentava con fatica di risollevarsi dagli orrori e le distruzioni della guerra. Un quando insomma che aveva l’obiettivo primario di dipingere l’impietoso assetto di quella nuova società borghese, nata sulle ceneri di una catastrofe che avrebbe dovuto concludere un periodo funesto ma che ne perpetrava invece – rinnovandole – le malefatte strutturali che evidentemente erano profondamente radicate nel suo DNA.
Stando a questa lettura quindi, ne La ragazza Rosemarie gli elementi riferibili alla teppaglia (il fratello, gli amici che la sfruttano e la ricattano, Rosemarie stessa, oltre che i leit motiv dei cori) e quelli riferibili alla borghesia faccendiera che a loro si contrappongono (gli “angeli” del miracolo economico, i fautori della “rinascita”, il trust dei “ tappeti volanti”, i grossi industriali maneggioni che elaborano con il governo progetti segreti che sembrano interessare fortemente anche le altre potenze straniere) sarebbero schematicamente rapportabili proprio al mondo rappresentato in altri tempi, in altri luoghi e in altra situazione economica, proprio all’interno di una piece fondamentale di quel teatro al quale anche la ricercata “fattura” della pellicola sembrerebbe voler fare riferimento.
Una lettura indubbiamente affascinante che però mi ha lasciato sempre molto perplesso: un’asserzione così impegnativa, in ogni caso richiederebbe a mio avviso la necessità di poter “revisionare” adesso la pellicola per verificare meglio le possibili connessioni esistenti, poiché se ne L’opera da tre soldi Brecht precisa che il dramma intende mettere in questione le concezioni borghesi non solo come contenuto, ma anche come “esposizione” dandone a suo modo una visione “definitiva”, mi sembra che al di là della potenza della denuncia, stando almeno al ricordo che mi è rimasto, il lavoro di Thiele non sia altrettanto categorico nelle conclusioni che rimangono più legate al “fatto in se stesso” e risultano meno universalizzate, e questo non solo risguardo a Brecht, rispetto al quale nonostante i cori risulterebbe per altro molto meno “epicizzato” nell’andamento, ma anche per esempio ai messaggi elaborati attraverso il teatro di Toller.
La critica certamente c’è, ma non si rintraccia, mi sembra di ricordare, una analoga carica “rivoluzionaria”, tanto per essere più espliciti, perché evidentemente anche gli interessi del regista erano certamente più circoscritti.
Mi permetto quindi di evidenziare la cosa, come semplice annotazione di cronaca, mentre da parte mia preferisco limitarmi ad osservare, sottolineandole di nuovo, le implicazioni sociali e politiche, le malversazioni e gli intrighi che riguardano in ogni caso soprattutto gli avvenimenti intorno alla tragedia di Rosemarie, avvenente venticinquenne “indossatrice” (si fa per dire) facilmente “abbordabile” per la sua “disponibilità”, ingenua e corruttibile, che verrà assassinata da uno dei suoi altolocati clienti, o meglio da una intera “categoria di persone” (perché ricercare, voler conoscere a tutti i costi il nome dell’esecutore materiale del misfatto, sembra suggerire il film, quando sono i mandanti i veri colpevoli, e alle loro decisioni nell’ombra vanno attribuiti gli esiti funesti degli atti ed essere riservate le nostre “attenzioni” esorcizzanti di condanna senza appello?).
Pur essendo comunque in qualche modo più astratto, per esempio rispetto a ciò che ha messo in luce Jean Davidson con il suo volume sugli anni della ricostruzione Germania sotto chiave, (che dovrebbe essere disponibile ancora per i caratteri della Feltrinelli) la satira e la critica di Thiele non risulta certamente meno significativa, nel suo mettere in evidenza attraverso “questa storia” il marcio che ci sta dietro, in una società in cui la sola cosa che conti davvero è il denaro, come spesso recitano i versi di una canzone del coro che commenta il film.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta