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Fiabeschi torna a casa

Regia di Max Mazzotta vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su Fiabeschi torna a casa

di M Valdemar
6 stelle

«Ma che film è?» mi chiede la cassiera appena pronuncio “Fiabeschi torna a casa”.
In effetti, la domanda è più che lecita, poiché tra l’altro il contesto è quello megagalattico e cannibalizzante di un tranquillo multisala di paura. Quindi sincero stridore.
Il film è uno di quelli di cui pochi, pochissimi sono a conoscenza, nemmeno fossero membri (a loro insaputa) di una setta segreta; fatto che desta una curiosità annoiata e distratta, tanto pronta ad accendersi quanto lesta a estinguersi, un po’ come quando ci si ritrova per caso a fissare la scia di bava di una lumaca senza guscio.
Osservato da vicino il soggetto “sgraziato” (ed avutane qualche vaga balbettante informazione), l’interesse non può che scemare repentinamente; dopotutto, c’est la vie (dei fuoricorso fuori di testa fuori posto ovunque).
Ebbene, a visione terminata, come rispondere alla domanda?
Fiabeschi torna a casa è una commedia sui generis, dai risvolti grotteschi ma soprattutto dall’aria indie (che più indie ci sono solo le Indie) e fieramente stramba, estrosamente (auto)estromessa dai circuiti destrorsi - perché standardizzati e preconfezionati - che imperano indefessi sul pubblico-massa.
Una storia buffa e genuina, sbilenca e sbagliata, a suo modo “fiabesca” e cialtronesca - tra folli in­serti onirici e disegni animati - che ha per protagonista Enrico Fiabeschi, uno dei personaggi partoriti dalla penna di Andrea Pazienza già visto proprio in Paz! di Renato De Maria del 2002, ed interpretata sempre dal medesimo Max Mazzotta che della pellicola in oggetto è anche regista, co-sceneggiatore e responsabile delle musiche.
Al centro dell’opera quelle che potrebbero essere definite le avventure bizzarre e “deformi” di un candido “minchione” - un tizio (stra)fumato, strampalato e stralunato che emigra al contrario tornando al paesello del sud d’origine, nell’era balorda della grande crisi globale a tempo indeterminato (allora qualcosa è rimasto!). Tema, quest’ultimo, più che altro intuito e intuibile, giacché la “visione” del tutto è un carboncino della “maschera” (cioè il protagonista) - capelli-baffi-ghigno, che è un ibrido sballato tra Groucho Marx e Massimo Ceccherini - preso e gettato via, alla prima (ma nient’affatto ultima: è garantito!) minchiata.
Zigzagando confuso e contuso, magari a ritroso fors’anche rincorso, tra le (a)tipiche vicende folcloristiche da paese (l’immutabile stato delle cose, la piazza, gli abitanti che sanno tutto di tutti, le conseguenze delle voglie della diciottenne figlia del sindaco, il prestito dello strozzino, il passaggio improvviso da farabutto cornuto a eroe), per Fiabeschi il grande (maddechè) ritorno sembra costituire la tappa esistenziale di uno che non è che gliene frega granché. Lasciatelo stare, per favore.
Anche perché già gli stanno appiccati la famiglia (il padre che gli vuole trovare il posto fisso), gli amici (e i nemici) d’una volta, finanche la macchina da presa, alla quale lo stesso a più riprese ammicca e si rivolge, come a dire: “benvenuto nel mio mondo, guarda e non rompere.”.
Parlando (perlopiù a sproposito) di karma, facendo scoperte rivelatrici («la casa siamo noi»), mostrando la sensibilità di un orso (bersaglio il fratellino adottato chiamato, appunto, “adottato”), il Nostro alienato pigrone riesce pure a pennellare una buffa storia d’amore con una donna muta (e non sordomuta), dal cui incrocio di sguardi è impossibile che non partoriscano incidenti d’ogni sorta.
Un ritratto, dunque, alquanto stravagante, insolito, fuori dagli sche(r)mi, nel quale è possibile scorgere lampi interessanti e ruvidezze, colori accesi e toni spenti, linee fluide e tratti grumosi, zone dense e passaggi a vuoto, tocchi surreali ed eccessi di caricatura (la caratterizzazione della zia fusa interpretata da Lunetta Savino; la parodia non molto riuscita di Jesus/John Turturro de Il grande Lebowski fatta da Paolo Calabresi, e certo non è un caso la citazione di quel film …). È come se la mano dietro l’opera fosse troppo occupata in molte fasi essenziali (ma probabilmente non c’era altro modo), intenta a inquadrare il soggetto curandosi poco dello sfondo, che tanto sfondo non è né può essere.
Manca quindi un po’ di lucidità nell’imbastire il quadro generale ma anche di sostanza, cosa che è palese nell’incasinato frettoloso finale: va bene il nonsense ma così si rischia di ottenere una risposta apatica e svogliata; condizione che si raggiunge se si ha la sensazione che, dopotutto, l’opera risulti, a conti fatti, simpaticamente innocua, priva di mordente, senza una meta precisa che non sia soltanto un’anomale dimensione di eccentricità ed estraneità.
Ma, fermi restando difetti e ingenuità, nel complesso non si può che valutarla godibile, meritevole pertanto di visione.

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