Regia di Stefano Lodovichi vedi scheda film
Aquadro. A per A. Un tatuaggio per sancire un’unione acerba. È l’amore di Alberto Manin ed Amanda Martini, due liceali alle prese con i loro sentimenti confusi e con una sessualità tutta da scoprire. Certi legami hanno bisogno di essere scritti in maniera indelebile, per essere certi di esistere, e di poter durare nel tempo. Si può incidere un simbolo nella pelle. Oppure si possono scattare fotografie e girare filmati col telefonino. Di un rapporto fatto di istanti così fuggevoli occorre conservare la traccia, in immagini che testimonino una realtà a cui è difficile credere fino in fondo, e che si fa fatica a capire. Nell’era digitale l’insicurezza corre sul filo delle connessioni telematiche. Vedere non basta, perché è vero solo ciò che può essere riguardato, mostrato, condiviso, postato come un trofeo, moltiplicato come un virus che trasmette un senso di onnipotenza. Alberto riesce ad avvicinare Amanda solo attraverso il display del suo cellulare. Un occhio elettronico deve fare da filtro, tra lui e quella ragazza che gli mette paura, se solo la pensa come una creatura in carne ed ossa. D’altronde lui l’amore, finora, l’ha fatto solo in maniera virtuale, con Nanà, la ragazza con la quale si dà appuntamento in una videochat erotica. Il contatto fisico diretto appartiene al mondo dell’imperfezione, della sostanza molle che non sempre agisce a comando, e sulla quale troppo facilmente si può perdere il controllo. Non esiste un pulsante che si possa premere, al momento giusto, per avviare il gioco oppure interromperlo. Ma l’automatismo geometrico di uno schermo che si accende o si spegne con un semplice clic è imparentato con l’incomunicabilità, con l’insensibilità, forse addirittura con la fissità della morte. Sarà anche per questo che l’obiettivo della macchina da presa tenta in ogni modo di sfuggire al suo finto rigore estetico, inseguendo la fresca avventatezza delle inquadrature rubate, delle visioni parziali, che alludono maliziosamente senza rivelare i particolari. La storia, in attesa di poter prendere forma, allinea i suoi flash in una memoria immateriale, composta di punti luminosi che vibrano per sottolineare l’ansia di conferme. Nella fremente tenerezza di due amanti in erba si può scavare con le dita che corrono sulla tastiera, secondo la frenesia di conoscere che fa bonariamente a pugni con il desiderio di stabilità. Alberto ed Amanda sono volti che si cercano, si scrutano, si studiano da lontano come ritratti appesi alla parete, come interpreti di un film che crea il proprio copione strada facendo. Amanda, nella mente di Alberto, nasce come l’icona di un concetto astratto: il primo scatto della fotocamera è dedicato alla sua figura, ripresa controluce e di spalle, mentre, in un museo, osserva un’opera di arte contemporanea. Poi verrà il video di lei addormentata, appoggiata al muro, nel corridoio di un albergo. Quella ragazza sarà a lungo soltanto la proiezione della donna distante, che si incontra per caso e non si può toccare, mentre è la protagonista di sogni che aspettano di essere messi a fuoco. La fiamma giungerà, all’improvviso, e brucerà tutto, i corpi, le anime e le loro sagome impresse nei pixel, le tracce incompiute, ma sfortunatamente perpetue, dell’idea che i due ragazzi hanno di sé. E allora la realtà, coperta di un morbido strato di cenere, cesserà, come per incanto, di apparire tanto cruda ed ostile. Il regista esordiente Stefano Lodovichi ci consegna una favola dei tempi nostri in cui il momento più doloroso, e più importante, è il risveglio dal sonno della fantasia: due adolescenti navigano in internet, tra blog ed instant messaging, fino a che la vita li ferma per sostituire il monitor con uno specchio. La schiavitù della dipendenza lascia il posto all’obbligo della resa dei conti, del giudizio, della scelta che decide il corso della vita. E il “lieto fine” è l’ingresso nell’età adulta, in cui la via più impraticabile è proprio quella della fuga.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta