Regia di Claudio Noce vedi scheda film
Col suo secondo lungometraggio, Claudio Noce conferma la sua visione lucida e competente. “La foresta di ghiaccio” è un film intenso, coinvolgente, che inizialmente disorienta per il tentativo di ampliare i confini del cinema di “genere”. Forse inadatto ad una lettura superficiale per la sua architettura complessa che si pone a metà tra il thriller ed il noir, si snoda su vari registri; gioca la sua scommessa accettando di perdere forse qualcosa in termini di scorrevolezza dell’intreccio pur di coinvolgere emotivamente lo spettatore attraverso la rappresentazione di varie solitudini ognuna nella diversa declinazione della propria personale tragedia o smarrimento.
Come nei suoi lavori precedenti Noce affida un ruolo fondamentale all’ambientazione nella quale si svolge il racconto. Se in “Aria” (il cortometraggio del 2005 vincitore del David di Donatello) la borgata richiamava la “periferia emozionale” del piccolo protagonista ed in “Good Morning Aman” il quartiere Esquilino era visto come un deserto brulicante nel quale Aman vagava sperduto in cerca di sé stesso, ne “La foresta di ghiaccio” le oscure vicende vissute dai protagonisti vengono messe a confronto con un contesto naturale livido che è freddo ed ostile come la disumanità del commercio di clandestini che si consuma in quei luoghi.
All’interno di questa allegoria fondamentale, l’obiettivo di comunicare il continuo senso di cupa tensione nella quale i personaggi si muovono con non minore fatica che tra i ghiacci e la neve alta fino alle ginocchia, viene raggiunto grazie ad un uso sapiente della telecamera a mano, dei rallenty e dei cambi di velocità che non risultano essere mai banali o autocompiaciuti ma sempre funzionali al racconto ed alla comunicazione delle emozioni che il regista vuole di volta in volta sottolineare.
Al pari dell'intensa colonna sonora, nella costruzione "ad incastri" del film pesa in maniera decisiva il ruolo della fotografia, vera e propria “colonna visuale” delle emozioni portanti del racconto. Come nei corti “Altra musica” (dove la scelta del bianco e nero nel descrivere il disagio adolescenziale del protagonista ed il suo confronto generazionale col padre-musicista, sembrava voler alludere a suggestioni di capolavori del passato) e ne “Il mistero di La Tour”, entrambi del 2012, (punteggiato dal frequente ricorso a sfondi bui illuminati da una luce fioca laterale come nei dipinti del Caravaggio che così tanto avevano influenzato il pittore francese), anche ne “La foresta di ghiaccio” la fotografia pone l'accento su quegli aspetti emotivi che sono alla base del film. Con il ricorso a chiaroscuri di grande effetto dove vengono messi in contrasto i colori slavati ed a tratti abbaglianti degli esterni con quelli foschi degli interni, Noce ed il direttore della fotografia, Michele D’Attanasio, sembrano voler ripercorrere la stessa strada di “Good Morning Aman” nella volontà di amplificare il buio interiore dei protagonisti.
In questo senso rispetto al suo primo film, Noce fa, a mio parere, un ulteriore passo avanti ed allarga il respiro della sua visione del cinema fatto di rimandi, citazioni e metafore; s’inserisce probabilmente in questo contesto l’uso del paesaggio che risulta apprezzabilmente lontano da immagini documentaristiche o da “cartolina”. Trattati alla stregua dei protagonisti, i vari scenari architettonici e naturali contribuiscono a sottolineare le emozioni attorno alle quali ruota tutto il film. In particolare la teleferica che trasmette la sensazione di sospensione nel vuoto nella quale sono imprigionati i personaggi o la diga, rappresentata con dei campi lunghi di forte impatto espressivo, a voler forse sottolineare la differenza di scala tra l’uomo con le sue miserie ed un contesto imponente, apparentemente indifferente ed in larga parte “disumano”.
Intensamente interpretato, con un montaggio ed una regia coinvolgenti sempre al servizio del film, “La foresta di ghiaccio” si fa apprezzare non solo per il coraggio dimostrato nel voler andare oltre i limiti del “genere” ma per l’obiettivo di rivolgersi al grande pubblico con un prodotto forse non semplice ma senz’altro ambizioso e raffinato realizzato attraverso una costruzione accurata ed una direzione attenta e capace.
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