Regia di Ken Loach vedi scheda film
Mai più un’altra guerra. E, soprattutto, mai più un altro dopoguerra. Il periodo immediatamente successivo al primo conflitto mondiale era stato, per il Regno Unito, un’epoca di grande miseria, segnata pesantemente dalla fame e dalla disoccupazione. Dopo la vittoria degli Alleati, il popolo britannico temeva, più di ogni cosa, di ricadere in quell’inferno, di vedere i soldati passare direttamente dalle parate trionfali alla mendicità. Fu allora che si impose l’idea salvifica di unire le forze del Paese, o meglio, di non disgregare l’unione già consolidata che, a suon di lacrime e sangue, era riuscita a sconfiggere il Terzo Reich. Il governo laburista di Clement Attlee, nella seconda metà degli anni quaranta, promosse un vasto programma di nazionalizzazioni, nei settori dei trasporti, dell’industria mineraria, della sanità, che contribuì alla razionalizzazione dei servizi e al miglioramento della qualità della vita dei ceti economicamente più svantaggiati. Una rivoluzione del welfare dagli effetti duraturi, che solo l’avvento del thatcherismo seppe annullare. Questa è la versione presentata da Ken Loach nel suo documentario, girato significativamente in bianco e nero: le tonalità grigie dei filmati di repertorio proseguono nelle riprese delle interviste dei giorni nostri, come a sottolineare la continuità di uno spirito che è sempre attuale. La soluzione ai problemi del presente sembra poter provenire da un sogno del passato, trasformato felicemente in realtà e poi troppo frettolosamente accantonato. La svolta potrebbe avvenire voltando le pagine all’indietro, fino a ritrovare il racconto di un progetto che, una volta tanto, aveva davvero funzionato. Questa è la tesi sostenuta da lavoratori e funzionari, dagli operai delle miniere e dagli studiosi del libero mercato. Una visione nettamente di parte, ma vissuta con la passione di chi, nonostante l’inarrestabile dilagare della crisi, crede ancora nell’impossibile. La sua sostanza è la poesia la cui tristezza affonda le radici di un’amara realtà, mentre i suoi rami si protendono al di là dell’orizzonte; la concretezza è la base a cui guardare con obiettività, senza però rinunciare a volare con la fantasia. È come studiare la Storia tralasciando il senso del Tempo, convinti che al ritmo delle stagioni si possa legittimamente sostituire la fluidità di un divenire che è solo apparente. D’altronde, se così non fosse, non sussisterebbe il pericolo di ricadere nei vecchi errori, così come sarebbe impensabile applicare oggi i tesori di saggezza degli avi. Il principio dell’eterno ritorno potrebbe essere letto in chiave progressista, come un invito a rispolverare i vecchi successi per produrre nuovi frutti. Si può ritenere che le formule risultate vincenti una volta lo saranno per sempre, a dispetto delle mutate circostanze, e del tramonto delle ideologie che le hanno inventate. È il contenuto di fede di un’utopia retroattiva. Una posizione discutibile, quasi certamente confutabile, ma proposta qui con l’incisiva potenza dei fatti e delle parole, di ciò che è accaduto, e di ciò che dice chi l’ha vissuto.
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