Regia di Felix Van Groeningen vedi scheda film
Talvolta si ha l’illusione che l’esistenza scorra come un vinile sul piatto. La playlist alterna gioia, dolore e nostalgia, declinando ciascun sentimento secondo il ritmo più consono all’insieme e al formato canzone. E al termine del disco, o delle stagioni, si può riprendere da capo, almeno fino a quando la puntina non salta fratturando irrimediabilmente la superficie. La storia di Didier ed Elise balla apertamente il bluegrass; «la musica più pura», dice lui che suona il banjo e si inventa il Kentucky rurale nella periferia belga di Gand, tra una fattoria, una roulotte, cavalli senza sella e galline razzolanti. Lei lo segue di buon grado, in campagna e nella band, aggiungendone il nome sulla propria pelle, insieme a quelli degli amori passati, convincendosi che, questa volta, non dovrà coprirlo con un disegno nuovo. Per raccontarci questa storia d’amore, lutto e disperazione, Felix van Groeningen scansa l’ordine cronologico (come già Blue Valentine di Derek Cianfrance), si sposta avanti e indietro nel tempo creando per i nostri occhi una compilation tutta nuova. È così che la sofferenza viene prima della felicità, l’inevitabilità prima della speranza, e ogni romanticismo è immerso in una coltre malinconica e struggente, acuendo la sensazione di ineludibile circolarità. È così che, soprattutto nei primi due atti, mantiene un equilibrio mirabile di emozioni e sensazioni, osservando il sogno americano della provincia europea (e la messa in scena, che inequivocabilmente evoca l’indie a stelle e strisce, sottolinea la prossimità tra nuovo e vecchio continente) sgretolarsi sotto i colpi impietosi del destino e del reale. Poi il cerchio si spezza ed è il collasso (il titolo originale richiama il canto tradizionale Will the Circle Be Unbroken? con cui si apre la pellicola), l’amore si frantuma in contraddizioni taglienti che non sanno ricomporsi, e Van Groeningen spinge con troppa forza il pedale del melodramma, fin lì miracolosamente calibrato (ma pare che la pièce da cui lo script è tratto, firmata tra gli altri dal protagonista Johan Heldenbergh, sia d’ispirazione autobiografica). L’insistenza sulle questioni etiche ha un retrogusto posticcio ed è, a conti fatti, superflua: basta l’infantile idealismo di Didier («l’America è la terra dei sognatori») a preannunciare il tracollo che segue il risveglio dal sogno. Ma la coincidenza fluida tra musica e storytelling è più resistente di eventuali sbandate di sceneggiatura (ed è sostenuta da interpretazioni appassionate): il bluegrass risuona differente accordandosi a chi lo ascolta, modulando le sue note agrodolci su frequenze contemporaneamente allegre e sofferte. Allo stesso modo Alabama Monroe lascia allo spettatore il compito di decidere se il cerchio sia aperto oppure chiuso.
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