Regia di Felix Van Groeningen vedi scheda film
Il problema di “Alabama Monroe” a mio parere non è quello di essere un film ricattatorio, è quello di essere un film non indispensabile.
La storia d’amore tra il neocowboy appassionato di musica bluegrass Didier e la tatuatrice Elise entra in crisi con la perdita per malattia dell’amata figlioletta Maybelle.
Considerando che il film è belga, che ha raccolto giudizi lusinghieri e che i due protagonisti sono descritti come due tipi parecchio alternativi mi aspettavo un film non necessariamente dardenniano o indie ma almeno lontano dai canoni del cinema più convenzionale americano e invece “Alabama Monroe” ha, oltre che ben poco di europeo nello stile, davvero scarse ambizioni in termini di originalità. La principale connotazione della pellicola è data dalle scene di musica bluegrass (il country americano più puro) che accompagnano momenti felici e tristi della vicenda costituendone il fil rouge, per il resto la storia d’amore tra un lui e una lei molto diversi tra loro (effettivamente sono male assortiti e non so fino a che punto intenzionalmente) è illustrata attraverso le irrinunciabili tappe canoniche (primo incontro, primo rapporto, lei va a vivere da lui...) con diverse scene di facile impatto ma in fondo piuttosto banali (la richiesta “alternativa” di matrimonio in ginocchio davanti a tutti, l’apparente reazione burbera di lui all’annuncio della gravidanza subito però tramutata in gioia costruttiva, la menzione della rottura delle acque tanto per non saltare nessun passaggio logico), insomma una storia che nonostante le premesse anticonformiste procede con uno svolgimento che rivela ben presto l’assenza totale di sorprese. Consapevole di questo limite, la regia spariglia le carte del racconto con un montaggio che alterna continuamente passato e presente, riuscendo però solo parzialmente a riscattarlo dalla sua prevedibile linearità e infatti verso la fine la mancanza di ossigeno si avverte chiaramente. Anche il cambiamento comportamentale di Didier e Elise a seguito del lutto è affidato a segnali piuttosto scontati (l’allegria se n’è andata, il sesso non è più come prima, lei copre uno dei suoi tatuaggi e addirittura decide di cambiare nome...) e non raggiunge particolare profondità a livello di analisi psicologica.
Fino a due terzi di durata il film procede, senza guizzi che non siano solo apparenti, tra una ballata country vivace e una mesta, e potrebbe forse trovare una sua legittimazione commerciale dopo il successo del predecessore “La guerra è dichiarata” di Valerie Donzelli, che pur non avendomi convinto del tutto presentava indubbiamente maggiori meriti di questo omologo belga. L’innocuità della pellicola si perde però con un’inattesa svolta militante che compromette del tutto la sobrietà del film, rendendo Didier protagonista di un’invettiva sulla questione delle cellule staminali rivolta a un George Bush che lo fissa perplesso dallo schermo di un televisore. E, come se non bastasse, si calca ancora la mano quando la disperazione induce Didier, subito dopo aver suonato un pezzo bluegrass al benjo, a infliggere una filippica antiteista ai malcapitati spettatori del concerto, producendo così un’altra scena retorica e oltremodo pesante che il film stesso, per sua natura, non ha lo spessore sufficiente per reggere.
Il film non è un cancer movie, è una storia d’amore, così come specificano le istruzioni per l’uso contenute nel sottotitolo italiano, ma di fatto un terzo della pellicola descrive per sommi capi la malattia della bambina e – non per infierire – anche su questo tema si attinge senza grossi sforzi al repertorio classico del bambino malato rappresentato dal solo punto di vista degli adulti: deve mettere allegria quando salta sul letto, tenerezza quando stringe il coniglietto, pena nel letto di ospedale. Peccato perchè il tema della malattia infantile in se’ è straziante e se si decide di trattarlo esige impegno, ma purtroppo qui non v’è traccia della riconosciuta capacità del cinema d’autore europeo di ritrarre l’infanzia con sensibilità e immediatezza, facendo emergere il punto di vista dei bambini anche se meno spettacolare. Malriuscita, tra le altre, anche la scena del funerale della bambina, che nel voler raffigurare (molto fissamente, in verità) una comunità di alternativi in lutto finisce per ricordare vagamente la foto di famiglia degli Addams.
Un altro punto debole è l’imperfetto equilibrio tra i due attori protagonisti: Veerle Baetens mi è sembrata brava e in parte, regge bene i primi piani che costituiscono spesso il perno della scena, mentre Johan Heldenbergh lavora su un personaggio scritto in modo maldestro che lo induce ad andare sopra le righe.
Mi dispiace non poter condividere i giudizi positivi su “Alabama Monroe”, che avrei considerato un film senza lode né infamia se non fosse che verso la fine deraglia anche dai binari del convenzionale per troppa ambizione, ma l’ho trovato non necessario come storia d’amore e troppo scontato nel trattare il tema difficile della malattia.
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