Regia di Calin Peter Netzer vedi scheda film
Un film complesso, interessante ed intenso, che dice molto sull'animo umano, sull'istituzione familiare, nonché sulla moderna Romania sorta sulle ceneri del paese lasciato in eredità da Ceausescu e cresciuto nel mito del capitalismo occidentale. Ignoro quale sia, quantitativamente, la produzione cinematografica rumena, però quello che se ne è visto in questi ultimi anni dà l'idea di un panorama vitale e di qualità: basti pensare a qualche film come 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, A est di Bucarest e Racconti dell'età dell'oro. È un esempio di questa vitalità del cinema rumeno anche questo Il caso Kerenes, diretto da un regista che porta il nome di un fantasista del calcio tedesco anni '70. Le tematiche che fanno da fulcro di questo film sono molteplici, ma possono essere sostanzialmente semplificate a tre: un rapporto madre/figlio complicato, inserito nel contesto di una famiglia alto-borghese della nuova società rumena; la morte di un ragazzo povero per mano (sebbene involontaria) di un giovane uomo ricco, viziato e incapace di assumersi le proprie responsabilità; la Romania stessa degli anni Duemila, tra la pesante eredità del periodo "socialista" e le contraddizioni che permangono anche dopo l'ingresso del paese nell'Unione Europea.
Sotto il primo aspetto, Barbu, imbarcandosi in una relazione sentimentale complicata con una donna divorziata, si è allontanato dalla famiglia d'origine anche per sfuggire alle grinfie iperprotettive della madre, una rampante architetta sessantenne che lavora come scenografa nel teatro. Il giovane, ormai trentaquattrenne, ha una sorta di blocco psicologico che gli impedisce di maturare e di diventare veramente un uomo, come dimostrano la sua incapacità di smettere di fumare e la dipendenza quasi patologica dalla Coca-Cola. Quando gli capita un incidente automobilistico e, per un eccesso di velocità e di imprudenza, uccide un ragazzino di quattordici anni, è incapace di assumersi le proprie responsabilità, tanto che, al momento di andare a parlare con la famiglia della vittima, manda avanti la madre e la compagna.
Quando avviene l'incidente, la donna prende in mano la situazione, dimostrando chi è che porta davvero i pantaloni in famiglia. Risolvere il problema creato dal figlio comporta anche scoprire diverse cose su quest'ultimo, sul suo stile di vita, sul suo rifiuto di darsi una discendenza ed anche sulle dinamiche successiva allo stesso incidente. L'assunzione di responsabilità comporta anche confrontarsi con la famiglia della giovane vittima, che impartisce alla protagonista una lezione di dignità.
E qui si arriva al terzo concetto fondamentale espresso dal film di Netzer, messo in evidenza anche dalla grande interpretazione di Luminita Gheorghiu, che raggiunge il culmine nel colloquio con i genitori del bambino rimasto ucciso, quando descrive il proprio figlio con caratteristiche che non possiede e che sono soltanto una proiezione dei desideri della madre. Ecco, forse qui si ha anche una descrizione di come il regista vorrebbe che fosse il suo paese, il quale è e si manifesta, invece, per come ci è stato raccontato in precedenza proprio in questo film: meschino, arrivista ed estremamente corrotto (i poliziotti aggiustano i verbali, i testimoni cambiano le loro deposizioni, i funzionari concedono autorizzazioni non dovute e così via), ben diversi da quella «meravigliosa creatura» cantata da Gianna Nannini nella canzone che fa da filo conduttore musicale a tutto il film. Nel finale si ha la presa di coscienza di Barbu, che con un atto di coraggio, poche parole ed una semplice stretta di mano riesce a comprendersi con il padre della sua giovane vittima della strada. Se, come è sembrato a me, in filigrana della storia narrata è leggibile una metafora dell'odierna Romania, questo è uno spiraglio di speranza, per un paese che dal passato ha ereditato una situazione tanto difficile da essere guardato con diffidenza dalla stessa Unione Europea che, forse un po' frettolosamente, l'ha ammessa tra i suoi membri.
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