Regia di Calin Peter Netzer vedi scheda film
I figli, anzitutto. Quelle appendici di te su cui riversi le tue aspettative insoddisfatte, i sogni che nella tua vita non hai potuto realizzare. Sono frammenti della tua carne, eppure non ti appartengono, né loro, né il loro destino. C’è sempre qualcos’altro che decide al posto tuo: la loro coscienza, il caso, il cinismo della sorte e degli uomini. Per te sono sempre bambini, però, in effetti, non lo sono mai, a nessuna età: a quattordici anni sono già in grado di sbagliare con la propria testa, di sfidare il mondo per gioco e di morire. E quando invece sono adulti, per quanto indifesi ed immaturi, tu non puoi far nulla per preservarli dalle conseguenze delle loro scelte, delle loro azioni avventate, dei colpi di testa che mandano all’aria i progetti che avevi formulato per loro. Mentre li ami con tutta l’anima, sono nelle mani di Dio, oppure sono impegnati nella loro personale ricerca della felicità, e in ogni modo ti sfuggono, lasciandoti in un mare di dolore. Il film di Calin Peter Netzer mette un dito nella piaga della genitorialità come condizione di debolezza ed impotenza, di velleità sentimentali che si ritorcono contro gli le nutre ed insegue ciecamente credendo di far bene. In nome della sacralità dei legami di sangue, la famiglia si può trasformare in una sorta di società segreta, nella quale le leggi morali decadono di fronte alle ragioni del cuore, oscuramente intrecciate con l’istinto riproduttivo. Una madre si mostra disposta a tutto, pur di salvare dal carcere il figlio che, al volante della sua auto, in fase di sorpasso, ha investito e ucciso un ragazzino che stava attraversando l’autostrada. È pronta a corrompere i testimoni, a spendere ingenti somme di denaro persino per ammansire la parte lesa, pensando che una generosa offerta pecuniaria possa mitigarne le rivendicazioni. La signora Kerenes converte la propria sofferenza – forse non disgiunta da un senso di colpa per il suo fallimento come educatrice – in un assurdo affanno volto a correggere l’irreparabile, l’imperfezione di una realtà in cui il miraggio della gioia è fatalmente spazzato via dal dramma che giunge all’improvviso, incomprensibile ed inatteso. Il cordone ombelicale, che la donna si rifiuta di tagliare, non è in grado di impedire la costante intrusione di persone ed eventi nel suo legame con l’adorato Barbu: mentre tenta invano di tenerlo stretto a sé, il giovane può finire tra le braccia di un donna sbagliata, oppure può accadere un tragico incidente, può infine nascere in lui il desiderio di allontanarsi, per esprimere la propria libertà di agire con piena responsabilità e in assenza di condizionamenti. La sostanza del film è un pantano domestico in cui tutti i Kerenes-Fagarasanu sembrano essere penosamente invischiati, un liquame opaco che frena i discorsi e appesantisce le parole, facendo di ogni frase uno spunto per ribadire l’incomunicabilità tra chi rincorre una salvezza impossibile e chi chiede solo di essere lasciato in pace a curarsi le ferite. Cornelia e Barbu sgambettano entrambi in quel fango, per opposti motivi, ma offendendo ugualmente la propria dignità: lei, nell’assurda pretesa di volare al di sopra della palude, lui, nell’ingenua speranza di andare avanti da solo, camminando nella melma, con la sola forza delle proprie gambe malferme. La saga familiare si è arenata, schiacciata dal peso opprimente di una chiusura protezionistica, ottusa e fondamentalmente imbelle, perché incapace di relazionarsi adeguatamente con l’esterno. Pozitia copilului presenta la posizione del bambino come un principio di immobilità, un modello di riferimento che è l’ultimo, primitivo tabù genetico di un universo affettivo in preda al disfacimento.
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