Regia di Calin Peter Netzer vedi scheda film
Se la recente cinematografia rumena si occupa di leggere la trasformazione sociale del paese, di usare temi forti e significativi, di sfruttare idee creative e disturbanti con uno stile lucido e sobrio senza beneficiare di grandi mezzi produttivi, allora Il caso Kerenes può tranquillamente iscriversi fra l’ottima serie di film provenienti da quell’area europea. Trentenne di buona famiglia bamboccione ed irresponsabile, travolge e uccide un ragazzino con la macchina. Cornelia Kerenes madre dell’investitore fa di tutto per sminuire le colpe del figlio, evitargli la galera, si vorrebbe caricare esclusivamente sulle spalle il peso morale dell’accaduto. Il problema è che il senso morale di Cornelia coincide con una serie di valori materiali su cui crede di pacificare ogni ragione. La traduzione simbolica riguardo la nuova realtà rumena corrosa dal capitalismo avviene quasi in automatico, ma il regista non si fa trascinare in una guerra di pseudo valori e di contenuti che potrebbero contrapporre il mondo agiato e borghese di Cornelia e del figlio a quello decisamente più povero e marginale della famiglia della vittima. Il regista Calin Netzer evita anche di mettere a confronto elementi psicologici diversi che potrebbero connaturare i vari personaggi, la sua attenzione si focalizza (e per una volta sottolineo il merito del distributore italiano che lo ha sintetizzato nel titolo) sulla sola e unica figura della madre, sulla portata della sua proiezione sul figlio privato di identità, personalità, di una qualche volontà che si possa rivelare diversa da ciò che Cornelia ritiene giusto. La donna assume una dimensione assoluta in un contesto socio culturale definito, paradossalmente relegata in un sistema di valori dal quale non può discostarsi, che al massimo le consente di esibire una bigiotteria morale con la quale spera di acquietare qualsiasi situazione. Basta notare con quale distacco viene tollerata dal marito, dal figlio, dall’altra donna (cognata o amica) che le fa compagnia al commissariato, dalla potenziale nuora, dai poliziotti stessi intimoriti dall’esibizione di conoscenze influenti tirati in ballo da Cornelia ma che sostanzialmente ne considerano l’inferiorità di genere, di ruolo sociale, subalterno a qualcosa di più convenzionalmente importante. Dunque l’unico modo per affermare veramente sé stessa all’interno di un mondo che non la considera “realmente” è quello di esercitare pienamente il proprio ego sull’unico soggetto derivato direttamente da lei, suo figlio. La presenza in video di quest’ultimo non fosse che per la sequenza finale potrebbe quasi essere evitata del tutto, il nucleo del film ruota su Cornelia, interpretata ottimamente da Luminita Gheorghiu, sul suo mondo artefatto, illusorio, e sordo ad ogni altra voce che non nasconda la sua disperazione inconscia. La regia si fa prendere la mano dalle riprese libere con vorticosi movimenti di macchina che a lungo andare infastidiscono e soprattutto vanificano lo stantio dei dialoghi, il vuoto culturale e disumano che li permea, cercando di dare loro un certo dinamismo. Il mondo dentro Cornelia è drammaticamente immobile, e neanche il gran finale (corredato da qualche tocco pietistico di troppo che fa intravedere qualche micro sviluppo positivo) non produce quel rabbioso trasporto, quella lucida commozione che un personaggio simile potrebbe tirare fuori. La credibilità che rende possibile uno scossone all’ interno della donna, prefigurando una consapevolezza del proprio autentico dolore viene stoppata, come se il mondo materiale che le sta intorno avesse eretto una barriera inscalfibile a sua difesa. Non è l’atteggiamento esteriore dell’azione della donna a sorprendere, che anzi si rivela prevedibile, è la mancata resa dei conti con il suo modo di essere che non convince fino in fondo. Se tutto ciò è voluto, lascia una scia di profonda amarezza e smarrimento che non contribuisce a risolvere del tutto la vicenda e a darne una lettura più critica.
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