Regia di Calin Peter Netzer vedi scheda film
Dalla Romania, dopo Cornelius Porumboiu, dopo Christian Mungiu, ecco con l'ottimo Calin Peter Netzer, un altro esempio di cinematografia rigorosa ed esemplare: una sceneggiatura incalzante che segue i pochi devastati e devastanti personaggi in un percorso umano, quasi un calvario espiativo nel dolore che li porta dalla mostruosità senza rimedio all’affiorare timido nel proprio modo di comportarsi, nel proprio atteggiamento, di una parvenza flebile di umanità, di compassione, pietà e senso di tolleranza che prima nessuno di essi conosceva e che ora riesce finalmente ad elevarli a persone.
Cornelia è una dinamica sessantenne, scenografa teatrale scafata e diretta, che vive col marito succube e, suo malgrado, distante dall’unico figlio adorato, viziato ed ingrato, il vigliacco senza qualità di nome Barbu, che la evita e maltratta in ogni occasione. Quando quest’ultimo accidentalmente, ma con colpa, provoca la morte di un tredicenne investendolo dopo un sorpasso azzardato, Cornelia tirerà fuori tutta la sua grinta e la sua spregiudicatezza per cercare di modificare le prove che consentano di scagionare l’apatico e maniacale delfino, che per questo fattaccio rischia l'incriminazione per omicidio colposo.
L’incubo in cui viene risucchiata Cornelia avviene subito dopo la pacchiana festa di compleanno della donna, che scivola via tra bollicine, invitati ingombranti e musica rigorosamente italiana, tra un Nino D’Angelo e una “Meravigliosa creatura” che personalmente trovo così potente ed appropriata da farmi riconciliare con la Nannini, da anni non esattamente la mia cantante preferita.
E tra tentativi di corruzione, depistaggi e induzioni a modificare le prove, noi spettatori scopriamo che in fondo Cornelia è solo una donna che cerca di difendersi da un mondo che è ben peggio di lei quanto a disumanità e perversione. Almeno lei ha il coraggio di dire le cose in faccia alla gente, a differenza del figlio codardo; la protagonista ha il coraggio di guardare in faccia il nemico o, in questo caso, la famiglia della giovane vittima: un padre impietrito dal dolore, una madre che ha smesso di lacrimare dopo tutto questo dolore. Il fatto che Cormelia in fondo sia meno peggio di quel che sembra lo dimostra nel corso della pellicola la figura abbietta e meschina del testimone, rivoltante sciacallo senza vergogna.
Come una lenta agonia, il film procede sicuro e forte di una sceneggiatura di ferro, sino ad un finale espiatorio nei pressi della umile abitazione dei genitori della vittima, il cui fermo contegno (che non è rassegnazione o volontà di riscattare il dolore con un premio pecuniario, tutt’altro!) della famiglia della giovane vittima induce persino quel vigliacco inconcludente del figlio a compiere il suo unico atto dignitoso di tutto il film. Ed un epilogo potente, meraviglioso, commovente che ritrae da uno specchietto retrovisore laterale una stretta di mano che stringe il cuore e accende gli animi, ci porta ad una delle chiusure più potenti, evocative e indimenticabili che ricordiamo da anni: segno inequivocabile di una potenza registica che già percorreva in modo chiaro la pellicola sin dai primi concitati momenti della pacchiana festa di compleanno di questa “meravigliosa creatura”. Orso d’Oro meritatissimo, inevitabile, irrinunciabile anche senza conoscere la valenza della maggior parte degli altri film che si sono contesi l'ambita statuetta.
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