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Jin

Regia di Reha Erdem vedi scheda film

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La recensione su Jin

di OGM
8 stelle

Turchia. La ragazza guerrigliera. Nel bosco si spara e cadono le bombe. Ed è il bosco di Cappuccetto Rosso. Jin, la diciassettenne curda che imbraccia il fucile e si nasconde nelle grotte, è infatti poco più che una bambina, che porta in capo un fazzoletto color del fuoco: un velo islamico che è anche un simbolo di sanguigna innocenza. Ed è il suo animo infantile, più che la paura, a spingerla a scappare, a disertare quella battaglia che è giusta, ma forse inutile, necessaria ma terribilmente violenta. Da quel momento la sua storia si riempie di un’avventurosa solitudine, trascorsa in perenne fuga, attraverso una natura rigogliosa ma avara, che la costringe alla fame, e non placa la sua angoscia. La sua vicenda si incrocerà, anche se solo sporadicamente, con quella di altri uomini, impegnati, sui due fronti, nella stessa lotta senza fine, ed anche con gli animali della foresta, feroci e non, con i quali la giovane istintivamente solidarizzerà. Il film di Reha Erdem vive di campi lunghissimi a sfondo naturalistico, vasti panorami di alberi, montagne, sterpaglia e pietre, in cui la giovane protagonista spicca come una macchiolina di colore, la minuscola figurina di un presepe selvaggio e deserto.  Jin è una bambolina, minuta nell’aspetto, però forte, solida ed indistruttibile, abituata ai lavori pesanti, alle arrampicate più spericolate, a sfiancanti maratone sui terreni più impervi ed incolti.  Un realismo silenzioso ed incantato ci accompagna in questo viaggio in cui è facile perdere l’orientamento, a causa dell’uniformità dei panorami e della ripetitività di scenari disabitati, cosparsi di pendii e di anfratti, di ruscelli e sentieri. Jin affronta un’odissea priva del conforto del mito, in cui incontra solo dolore ed odio, abbandono e brutalità. Deve guardarsi le spalle, procurarsi il cibo, cercare il modo per tornare a casa, o anche solo comunicare con la madre. La normalità è una meta assai lontana, in quel nulla popolato di insidie, nel quale si può rimanere per sempre intrappolati. La morte è perennemente in agguato, quella del corpo al pari di quella dell’anima,  perché, in un ambiente di stampo patriarcale e militarista, c’è ovunque qualcuno che mira ad uccidere la sua dignità di donna. Il pericolo costante impedisce alla fiaba di inseguire il volo della fantasia, e solo per pochi, brevissimi istanti riesce a sfiorare la trasognata delicatezza dell’idillio campestre. Il resto è fatica che annebbia lo sguardo sull’orizzonte, ed incatena il presente ad un suolo che trattiene il passo e consuma la capacità di pensare al domani. Il percorso di Jin è un cammino tanto coraggioso quanto frustrante, che gira in tondo per salvare la pelle, e non progredisce se non nella determinazione a raggiungere il proprio traguardo di affetti e riscatto morale.  Lo spirito romanzesco, che occhieggia dietro l’angolo, rimane in attesa di  far sentire la sua poetica voce; tace, nel frattempo, per non tradire il segreto di Jin, mettendo i nemici sulle sue tracce. Quel mancato sussurro è il vero rumore di fondo di un racconto che, cercando un angolo di pace ed un fidato interlocutore, scava con le mani  tra i sassi per trovare, se non altro, un dimenticato frammento di umano calore. 

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