Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
Il giovane Tom arriva dalla città nella fattoria della famiglia di Guillame, il suo compagno deceduto, per assistere al suo funerale. Nessuno della famiglia è però a conoscenza della sua esistenza. Tom si trova così stretto in un triangolo di menzogne e violenza, un equilibrio instabile sbilanciato dal fratello del morto e dalla madre, ignara delle inclinazioni sessuali del figlio defunto.
Tom at The Farm segna un brusco cambio di direzione da parte di Xavier Dolan, enfant prodige del cinema canadese qui al suo quarto film. La sua precedente trilogia sull’amore ha in Laurence anyways il suo punto più alto , debordante e bizzarro, ma fresco e urgente nella messa in scena nervosa indice di un talento esplosivo .
Tom at the farm è invece un thriller psicologico, trattenuto e rigoroso dove il non detto , le sospensioni e il contesto rurale forniscono la chiave espressiva di questo dramma dell’anima.
Non aprite quel trolley.
Anima, amore, morte. E omosessualità. Come il suo regista e interprete, omosessuale bello e fragile, elfo caduto in mano agli orchi che esorcizzano la frustrazione con la violenza. Prigioniero di una spirale di sopraffazione che parte dalla madre, anziana autoritaria e totalizzante, responsabile delle menzogne dei figli, l’uno omosessuale, l’altro, Francis che vorrebbe esserlo ma che si vergogna della propria natura. Quest’ultimo con il giocattolo Tom trova la figura nella quale specchiare il proprio essere.
Tom e il suo trolley, il look trendy che fa a pugni già dalla prima inquadratura con lo spettrale silenzio che avvolge le strutture della fattoria, disegnate nell’essenzialità ottusa che già urla il suo disprezzo per la figura del ragazzo. Il contrasto tra sfondo e personaggio è già di per sé un ammonimento.
Parliamo si sottocultura, aberrazione dei sentimenti. Gli ultracorpi dell’intolleranza hanno spinto i loro filamenti velenosi nel fondo del cuore umano, trasformandolo in maniera forse irreversibile. Un bacio mancato, un tango e un vestito da donna. Dolan semina indizi, semina vento e tiene sotto controllo la tempesta. Il thriller si sviluppa a questo punto su un altro terreno. Quello dei sentimenti: attrazione e repulsione, dolcezza e violenza, identità mutevoli. Non sappiamo perché e come il suo compagno sia morto. Il punto focale si sposta sul micro universo nel quale egli è cresciuto e la cui assenza si avverte come una vibrazione fantasmatica. Aleggia negli sguardi, nei pensieri, nelle opere e nelle omissioni.
Per amore, solo per amore.
C’è qualcosa di sacro in Tom nell’immolarsi totalmente per una causa non sua, conservare uno status machista e rozzo di cui egli è rappresentante dell’esatto opposto speculare; c’è qualcosa di profano nella sindrome di Stoccolma che pretende di coprire la violenza domestica, psicologica e fisica, messa in opera dalla madre e da Francis . Un totale abbandono in bilico tra l’amore non detto e l’odio distillato a goccia a goccia come un veleno, fino a non morirne più.
Mentendo sapendo di mentine.
Menzogne dipinte come affreschi d’amore. In realtà terrapieni di dolore confusi con l’integrità che la società si aspetta. Il sorriso dolce di Tom tradisce la costrizione di Francis attirato dalla freschezza del ragazzo e per questo colpevole di scatenare il lui sentimenti laceranti. Tutti sanno, e tutti fanno finta di non sapere. I colori caldi della fotografia sono costretti in inquadrature geometriche. La chioma innaturalmente bionda di Tom si accende come un fuoco fatuo sui cromatismi lividi degli esterni. Anche le immagini mentono, e questo è un pregio.
Un film notevole vien da dire, ma non perfetto. Se si capiscono perfettamente le intenzioni di Dolan nel mettere in scena l’opera teatrale di Michel Marc Bouchard, forse manca qualcosa in termini di “meccanica” del gioco mortale. Una sorta di incompiutezza forse voluta, per enfatizzare la fuga dall’incubo dal quale ci si sveglia storditi e incerti riguardo la consapevolezza di aver vissuto o meno, quella esperienza. Si capisce ma non si “sente”.
La storia dello straniero in terra straniera, la differenza di culture che vede quella rurale percepire come una minaccia alla propria integrità quella più eterea e intellettuale, sessualmente più libera, giunta a solleticare le debolezze sepolte nell’ignoranza direttamente a domicilio, è un tema che ha già avuto parecchie trasposizioni.
L’esempio più vicino a questo film è Calvaire di Fabrice du Welz, ma si possono avere riferimenti in Cane di Paglia di Sam Peckimpah, il recente e bellissimo La fuga di Martha di T. Sean Durkin e perché no, l’estremizzazione gore di Non aprite quella porta di Tobe Hooper.
Ecco quello che manca a questo affresco intellettuale della violenza, che strizza un occhio a Hitchcock e l’altro a Chabrol, è un aspetto più di genere. Più radicale. La partecipazione che la storia richiederebbe rimane ben delineata a livello intellettuale ma distaccata, fredda. E’ un film cerebrale che omaggia la propria natura senza rendersi memorabile. Forse troppo preso dal senso della storia, Dolan replica, escludendo l’emotività degli spettatori dal suo diorama di violenza, l’isolamento degli abitanti della farm in cui capita Tom, che escludono ogni contatto con l’esterno per non ammettere le proprie vulnerabilità.
Altri aspetti che non inficiano il valore del film ma che diluiscono un po’ la tenuta drammatica del racconto sono alcuni snodi narrativi un po’ troppo tirati via, (il passaggio di Tom da vittima a solidale con la famiglia) un personaggio che appare e scompare ma che non lascia il segno (la falsa fidanzata di Guillame) , cambi di marcia un po’ bruschi. L’impressione è che fosse troppo presto per pensare un film del genere, nonostante il livello di tecnica e messa in scena sia di primissimo livello resta un esercizio che galleggia in superficie e quando affonda lo fa tentennando.
E’ in ogni caso un film da vedere, se non altro per avvicinarsi alla conoscenza di un autore – non ancora trentenne – che farà parlare di sé , e molto, in futuro. E’ però indispensabile recuperare i film precedenti, sicuramente più personali.
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