Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
Mentre gli esseri umani parlano, il mondo attorno a loro rimane fermo. Se questo avviene in un film, la regia può decidere se seguire il loro movimento, oppure se adeguarsi all’immobilità del mondo. E da questa scelta deriva tutta la portata emozionale di un film fatto da personaggi veri, profondamente ambigui e straordinariamente umani, come i personaggi di Tom à la ferme. Si potrebbe parlare di thriller “hitchcockiano”, specie se guardiamo al curioso rapporto madre-figlio, virante verso la psicosi, ma la realtà è che è un film profondamente kubrickiano, e lo sarebbe totalmente se spesso non si effettuassero vicinissimi primi piani, a riempire gli spazi vuoti di un mondo come di un morto. Il lutto, mancanza per antonomasia, è sineddoche di una carenza esistenziale che i personaggi del film dell’ottimo Xavier Dolan cercano di colmare nella maniera più variegata, straniante ed ambigua, portando così a un costante senso di destabilizzazione, pur essendo quest’ultimo confondibile con un’atmosfera da thriller “tradizionale”. Perché il fatto che il film non spieghi alcuni passaggi, e lasci in sospeso molti eventi, è anche una condizione voluta, ed è la conseguenza definitiva del trionfo della menzogna. Perché Dolan, oltre che muoversi fra caratteri, emozioni e sensazioni, si muove fra verità e menzogna conferendo alla sua opera un senso di opprimente tensione che non dà mai tregua e che si nutre degli ambienti grigi di una provincia razzista e non molto open-minded, limitata da un vuoto che Guillame, il ragazzo di cui si celebra il funerale all’inizio, ha lasciato da molto tempo, anche prima di morire fisicamente: egli era scappato dal suo paese natale per rifugiarsi in un luogo cittadino, dove effettivamente avrebbe potuto esternare la sua vera personalità sessuale, oltre che la sua enorme promiscuità. Infatti all’inizio il film sembra dividere eccessivamente i limiti del provincialismo e l’apertura mentale dell’urbanità, con l’arrivo di uno straniero che sconvolge sottopelle, ulteriormente, gli squilibri di una famiglia decimata, a cui sono venuti a mancare padre e fratello. È infatti la storia di Tom, fidanzato di Guillame, che torna al paese di quest’ultimo per partecipare al suo funerale e conoscerne la famiglia. Quello che non si aspetta è l’intervento violento del fratello di Guillame, Francis, intenzionato a non lasciar trapelare nulla dei gusti sessuali di Guillame, affinché la madre possa rimanere “fiera” di suo figlio. Fin qui il tema che Dolan fin da subito mette in ballo è il rapporto fra verità e menzogna: il vero problema, per la prima buona mezz’ora, è che tutto sembra convergere verso una discretamente grossolana divisione fra provinciali e cittadini, a rischio manicheo (nonostante fin dall’inizio si denoti l’abilità registica di Dolan). La realtà però è ben altra, ed evolve gradualmente con una maestria davvero invidiabile.
Tom comincia a provare un attaccamento morboso nei confronti di quel mondo, di quell’isolamento: affermerà lui stesso che in quel mondo tutto (paradossalmente) “è più vero”, quando durante la conversazione con Sarah, un altro personaggio relativamente importante nella storia, lui rivelerà la sua totale vicinanza (o dipendenza?) a un luogo fuori dal mondo e ricco, forse, della presenza dell’uomo che lui amava e da cui, secondo quanto in quella stessa sequenza afferma Sarah, era tradito. Sarah è la ragazza, infatti, che, nella menzogna creata da Francis, era fidanzata con Guillame, e che Tom chiama ben presto per interpretare questo ruolo, per quindi proseguire con la pantomima di Francis, che pure Tom lasciava intendere di odiare. Da quando compare Sarah, il film spicca il volo: Tom l’ha fatta venire per destabilizzare Francis, o per venirgli incontro? In che misura l’evidente timidezza di Tom trova nella menzogna di Francis la maniera di giustificarsi e coprirsi, tramutando le sue intenzioni e il suo amore per Guillame nella bocca dell’”attrice” Sarah?
È chiaro che tutto ciò si può capire solo vedendo il film, e che non si tratta di domande a cui realmente si può dare una risposta definitiva. Eppure mai come in Tom at the Farm ogni singolo risvolto relazionale si può caricare di un dato significato, e Dolan è attento che questo invischiarsi continuo di tensioni interpersonali abbia un referente concreto nella regia: da notare infatti come nei conflitti fra Tom e Francis, conflitti violenti ma sempre permeati di una strana tensione erotica che fa pendant con certe volontà autodissolutorie da parte di Tom (<<stringi più forte>>), il formato dell’immagine si restringa esponenzialmente, a rendere l’atmosfera sempre più opprimente e sempre più atta a stringere i due personaggi in una spirale di satura ambiguità. Con l’intervento di Sarah, personaggio “doppio” e straordinariamente negativo, il film si libera da quella leggera grossolanità iniziale, e comincia a dispensare le colpe un po’ a tutti i personaggi, sia provinciali che non, rivelando che rischiano di non esistere proprio mezze misure, e lasciando che lo spettatore sospetti che neanche Tom sia del tutto “sano”, nel momento in cui non riesce a liberarsi di quel nuovo mondo e di quella nuova persona che è Francis. Forse perché non crede che da lui riceverà mai del male, forse perché avverte che Francis ha bisogno di lui (per colmare il vuoto lasciato dal fratello? A causa di una forte attrazione repressa? O forse per entrambe le cose, sottintendendo che provava una certa attrazione incestuosa anche nei confronti del fratello stesso?). Le domande si accumulano, certi passaggi narrativi forse un po’ stroppiano, e cercano anche uno spettacolarismo che tradisce il generale intimismo, ma in conclusione Tom at the Farm può dirsi un grande film, un po’ sfacciato nelle simbologie e negli ammonimenti (il locale in cui Tom viene a sapere certe verità su Francis si chiama “Les affaires vrais” [sic]), ma magistrale nell’uso dello strumento filmico.
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