Regia di Jafar Panahi, Kambuzia Partovi vedi scheda film
La libertà è dentro. Anzi, no, è fuori, sempre al di là del campo visivo, quando in scena ci sei tu. Per Jafar Panahi non esiste possibilità di rifugio. L’intimità è per lui, ormai, un deserto inquieto, un luogo appartato che i lontani echi del mondo confusamente assediano, togliendo ogni residua illusione di sensatezza. In una villa in riva al mare si può provare a girare un film: una storia che ha deciso di fuggire via dalla luce, per rintanarsi in una dimensione di pensiero solitario e silenzioso, che, nell’assenza di contaminazioni esterne, cerca invano la sua purezza. Kambozia Partovi, amico di sempre e fedele collaboratore del regista, interpreta uno scrittore reietto che non riesce a rendere vera la sua esperienza personale, perché nessuno la sente, e perché un’ospite indesiderata è venuta a distoglierlo dalla speculazione, con il compito di richiamarlo alla vita. Intanto l’aria preme sui vetri, fino a farli scoppiare. In casa è entrato un turbine che ha sconvolto tutto: ma forse non è un evento naturale, forse sono stati i ladri. L’umanità disturba, e non consola, nemmeno quando vorrebbe essere di aiuto. L’artista è comunque abbandonato a se stesso, mentre rimugina sulla propria inutilità, sul proprio amore senza sbocco, sulle proprie idee che hanno perso la battaglia. In tale situazione, si può scegliere di girare in tondo, di ripetersi, fingendo di essere convinti ed ostinati. Oppure si può decidere di lasciare che il caso riempia il vuoto spinto della melanconia, come una corrente che rimescola le carte, preludendo, sarcastica, alla loro completa distruzione. I fogli degli appunti volano verso il caminetto. Intanto una ragazza sconosciuta si comporta come una giovane verità offesa, incerta se sparire per sempre o continuare a dare fastidio, comportandosi da birichina. La sua presenza è scomoda, impertinente, imprevedibile, e basta da sola a scuotere le coscienze afflitte dalla rassegnazione. Un gioco perverso e tentatore si fa avanti con diabolica destrezza, seminando un dubbio che insidia la voglia di mollare tutto e tirarsi indietro. La stessa macchina da presa scherza con il proprio ruolo, alternandosi come spettatrice ufficiale e testimone furtiva, fino a cedere al desiderio di diventare attrice protagonista, benché compressa dentro la cornice di un telefonino. Il peggiore fallimento, per un cineasta, è farsi sorprendere mentre non si sta più guardando, essere colti nell’atto di nascondersi, di rifiutarsi di vedere, proiettando sul mondo la propria fame di anonimato. Panahi ha gli occhi spenti, eppure non si vergogna a mostrarceli, proprio nel momento in cui si rendono colpevoli di una deliberata disattenzione nei confronti di una storia ancora allo stadio larvale, che ha sofferto per il troppo buio, e che preme per diventare chiara ed importante. Questo film inquadra la scomposta fatica di aprire uno squarcio, nell’improvvisata tenda dietro cui si nasconde la paura. Il coraggio è una poesia acerba, che riesce a stento a parlare, raccogliendo brandelli di nostalgia. La felicità è un ricordo sfrangiato, che bussa alla porta come una mendicante vestita di stracci. Le sue parole sono i pezzi di un rompicapo da ricomporre. Non capirci nulla è normale. Cacciarla via è imperdonabile.
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