Regia di Jafar Panahi, Kambuzia Partovi vedi scheda film
La critica è stata dissonante, per usare un eufemismo. Voci di corridoio del festival parlano di un'anteprima stampa disastrosa, con membri della giuria internazionale che se la dormivano di brutto e parecchi buu al termine della proiezione (mischiati ad applausi, com'è prassi).
Quindi metto subito in chiaro un paio di punti: a me il nuovo film di Panahi è piaciuto, moltissimo. Eviterò discorsi retorici e moralisti sulle tristi condizioni del regista, le conosciamo tutti (il film parla di questo, ma ad altri livelli) e della trama dirò solo che è semplicissima, ad alto tasso simbolico e metacinematografico. A due terzi del film, quando le azioni del significante stanno per esaurire il loro significato, il protagonista-alterego del regista cede il testimone a Panahi stesso che con lunghi, lenti e bellissimi pianisequenza a camera fissa con al massimo qualche panoramica (l’azione ha luogo anche in esterni, ma il punto di vista è sempre interno alla casa, a ricordare le situazione di forzato voyerismo hitchcockiano a cui è costretto) riordina la casa-set dalla confusione creata nella prima parte della pellicola, chiude i cancelli, saluta i personaggi di supporto e con un SUV si porta via anche le comparse. Un iPhone senza SIM che diventa esclusivamente strumento di ripresa d'ultima generazione, completa il film con un non troppo originale ma coerente discorso sul digitale (che direi sia stato indispensabile affinché il regista potesse continuare a lavorare).
Ecco, non volevo farlo, ma mi sono dilungato. In realtà volevo dare merito a “Pardé” per due importanti questioni per cui si è maggiormente distinto e per cui merita di essere inserito nella libreria di un vero cinefilo.
1) Questo è in assoluto il primo film nella Storia del cinema in cui ho adorato la presenza di un cane come personaggio protagonista. Non è il solito film in cui gli animali dal tenero musetto irresistibile pucci pucci sono stati inseriti per sciogliere il cuore degli spettatori e farli ridere e commuovere a comando grazie ad un profanato effetto Kulešov (sto pensando all’agghiacciante “Hachiko”, bruciatene tutte le copie). Oltre al fatto che meriterebbe l’Oscar canino (esiste, giusto? L’anno scorso l’hanno assegnato al cane di “The Artist”), il cane di Panahi è in grado a livello metatestuale di rafforzare in maniera straordinaria la metafora della condizione del suo padrone e del suo regista. Mentre a livello narrativo esso condivide la stessa condizione di perseguitato del suo padrone (leggi islamiche sull’impurità dei cani), evitando dunque quell’orribile stilema di sostituire gli insostituibili e imparagonabili rapporti inter-umani (sia chiaro, non sono anti-animalista, mi piacciono gli animali. Sono anti-animalisti).
2) “Pardé” ha un effetto tanto raro quanto sublime: fa venire voglia di Cinema, di fare cinema! E la sensazione di uscire da una sala e voler correre a scrivere una sceneggiatura, anche solo un dialogo, o di girare un piccola inquadratura e montarla insieme ad altre è qualcosa di impagabile. Si ha l’impressione di aver “capito” qualcosa di importante e che l’unico modo di condividerla con gli altri sia quello di filmarla. Inoltre Panahi ci dimostra quanto oggi sia semplice girare un film e che farlo è possibile per chiunque, senza troppi mezzi, senza troppo talento (lui ne ha). Ci suggerisce di provare almeno, anche se non l’abbiamo mai fatto prima, anche se non ci avevamo mai pensato. Perché “Pardé”, pur nella sua povertà di mezzi, mantiene un’eleganza formale davvero rara e contagiosa.
Quindi grazie Panahi, per me sei nel podio dei film in concorso!
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