Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Sidney Lumet è stato quasi sempre una garanzia nella realizzazione di film che, in generi anche diversi fra loro, hanno segnato la storia del cinema. Passando dal dramma giudiziaro (La parola ai giurati, Il verdetto) al dramma poliziesco (Serpico e Il principe della città) o quello familiare dai toni noir (la sua ultima, splendida, fatica, Onora il padre e la madre) senza dimenticare delle tematiche più interiori come nel bellissimo Quel pomeriggio di un giorno da cani, il suo sguardo è stato sempre attento a cogliere le caratteristiche, ed in particolare le storture della società contemporanea. Con Quinto potere approccia una tematica molto avvertita in quegli anni, e che si sarebbe ancor più affermata in quelli a venire nel nostro paese, vale a dire la profonda e anomala influenza che i media hanno nei confronti del pubblico, oltre che la messa in evidenza degli interessi che muovono queste gigantesche società di spettacolo e (pseudo) inormazione. Il cinismo e la spettacolarità a cui si prestano i media già all'epoca non era un argomento nuovo; Hollywood aveva già messo alla berlina questo approccio con dei bellissimi film come L'asso nella manica di Billy Wilder o il tetro Quando la città dorme di Fritz Lang. Lumet tuttavia pone questo problema con toni quasi apocalittici e sicuramente graffianti. L'argomento è infatti trattato in una modalità quasi anomala per il regista, con un approccio infatti molto "urlato" e aggressivo emerge tutta l'ipocrisia del settore, in un gioco di attori che sembrano sfidarsi a chi è più bravo. Se la descrizione del mondo della rete TV è impeccabile nel suo cinismo, un po' meno è la vicenda privata che si sviluppa tra il maturo William Holden (forse l'unico personaggio a mantenere un po' di etica nella sua professione) e la "divoratrice" Faye Dunaway, che in ruolo che potrebbe tener testa a un Gordon Gekko nel suo arrivismo (e che forse anticipa proprio il modello degli yuppies del decennio successivo) ripropone dei canoni abbastanza scontati. Alcune sequenze, allora come oggi hanno un impatto visivo eccezionale: difficile non trovare dei parallelismi tra le invettive deliranti di Howard Beale ed alcuni talk show televisivi a cui la TV ci ha abituati. Altrettanto toccante è l'incontro, sapientemente messo in scena tra lo stesso Beale ed il presidente della compagnia (uno ieratico Ned Beatty) che pone una pietra tombale sui limiti della libertà d'espressione, ancora una volta connessi al potere economico.
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