Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Non è mai stato chiaro se “Network” di Sidney Lumet fu ideato successivamente al triste suicidio in diretta della giornalista Christine Chubbuck. Eppure il discorso tanto delirante quanto premonitore di Howard Beale, conduttore dell’emittente UBS in preda a convulsioni nevrotiche, rimanda parecchio al mesto atto estremo della reporter. Il fulcro della sceneggiatura del premio Oscar Paddy Chayefsky mette infatti al centro della rappresentazione l’eventuale commerciabilità televisiva delle catastrofi, il radicalismo tumultuoso e la folle spettacolarizzazione che permea i funesti fatti di cronaca nera. Il sensazionalismo è un vile sottoprodotto delle decisioni aziendali più redditizie. Questo concetto onnipotente sostiene una filosofia sub-umanoide che purtroppo stabilisce le rudimentali regole di base per lo sconcertante e virulento mondo delle stazioni via etere. La sceneggiatura risulta talmente arguta da trasformare un dramma realistico in una sorta di parabola esistenziale corrosiva sull’egemonia dei media, le relazioni, la mortalità e la vita occidentale. La televisione quindi non raffigura la verità, bensì uno show disdicevole, sibillino, pieno di illusioni che influenzano i pensieri e le opinioni delle persone; il mezzo di comunicazione fa uso della “pianificazione neurolinguistica”, la quale sprona lo spettatore a “riformattare” la mente ed eseguire i messaggi subliminali delle esecranti trasmissioni. Lo stile registico dinamico e fluido di Lumet, sempre attento a mantenere una certa sensibilità nei dettagli e un ritmo spedito, risalta le sagome dei personaggi conferendogli una sottigliezza psicologica ragguardevole, alternando le interpretazioni a una voce fuori campo che scandisce le sequenze senza perdersi nelle secche di una narrazione smodatamente volgarizzata. Peter Finch (Beale) e Faye Dunaway (Diana Christensen) sono magnifici. Il primo incarna un anchorman esausto che si converte in un profeta del piccolo schermo; la raffinatissima teatralità di Finch ne profila una figura dannatamente viscerale, esulcerata, capace di mettere a ferro e fuoco un’intensità introspettiva indimenticabile, ergendo il suo ruolo ad icona pop di un’epoca turbolenta. La Dunaway esibisce ugualmente un ritratto affascinante di una dirigente cinica e insensibile, le cui sfumature delineano una donna dall’indole veemente (stringe pure un patto con dei terroristi in cambio di alcune riprese casalinghe delle loro attività criminali), quasi priva di vulnerabilità; una controparte femminile energica che, assieme alla brava Conchata Ferrell (Barbara Schlesinger), tiene perfettamente testa ad attori del calibro di William Holden (la “voce della ragione” Max Schumacher), Robert Duvall (lo yes man Frank Hackett) e Ned Beatty (straordinario il monologo febbricitante dell’anetico funzionario Arthur Jensen). Le performance vengono altresì avvalorate dell’ingegnosa fotografia di Owen Roizman: l’illuminazione è alterata ponderando gli ambienti circostanti, in modo da dissezionare accortamente le fonti naturalistiche degli esterni dalle tonalità sommesse nelle scenografie artificiali, decorate aumentando le alogene man mano che il film lambisce il climax finale (espediente tramite il quale accresce la tensione). “Quinto Potere” (il cui titolo suona inflazionistico visto che in Italia si battezza dichiaratamente come sequel di “Citizen Kane”...) rimane ancora oggi un pezzo di celluloide lungimirante, i cui riconoscimenti e l’aura di culto che lo precedono non possono che essere ampiamente giustificati. Un raro capolavoro di tecnica e recitazione.
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